Un solo pane, un unico corpo Stampa
Scritto da Don Raffaele   

L’Eucarestia nella vita della comunità cristiana

lettera pastorale per l’anno 2009-2010

1. Prologo
È domenica mattina. Il mondo sembra quieto; molti dormono ancora per ricuperare le ore del­la sera. Etuttavia quando un suono di campane si diffonde nell’aria, da molte case, come rispon­dendo a una chiamata, escono persone che si di­rigono verso la chiesa. Sono vestite bene, come se andassero a un ricevimento; camminano svel­te, come se qualcuno le stesse aspettando e non volessero far tardi. Perché? Perché non stanno tranquillamente a letto per godersi qualche ora di assoluto riposo?

2. Il giorno del Signore
Un salmo, cantato nella festa di Pasqua, dice: “Questo è il giorno che ha fatto il Signore; ralle­griamoci ed esultiamo!” (Sl 118,24). Naturalmente tutti i giorni sono fatti dal Signore, lui che è crea­tore di ogni cosa, dello spazio e del tempo. pe­rò c’è un giorno che appare diverso dagli altri, un giorno nel quale l’azione di Dio si dispiega con una forza e una chiarezza unica. È il giorno in cui Dio ha risuscitato Gesù dai morti e cioè in cui Dio ha introdotto un pezzo del nostro mondo (l’umanità di Gesù, la carne umana di Gesù) nel suo mondo (nel mondo di Dio, nell’eternità e nella gloria di Dio). In questa azione è stata spezzata l’autosufficienza del mondo e, nello stesso tempo, è stata vinta una volta per tutte la morte: il Cristo risorto – l’uma­nità gloriosa del Cristo risorto – non muore più, la morte non ha più nessun potere sopra di lei. E siccome la risurrezione di Gesù è promessa della nostra risurrezione, il giorno del Signore contie­ne la speranza che anche il nostro mondo, anche la nostra fragile natura umana, entrerà nella glo­ria di Dio e sarà fatta partecipe della pienezza di vita che appartiene a Dio solo. Per questo oggi è un giorno speciale; per questo ci alziamo lieti; per questo ascoltiamo il suono delle campane come fosse un appello rivolto a noi e usciamo di casa; per questo ‘con timore e gioia grande’ (Mt 28,8) ci avviamo verso la chiesa.
Per fare che cosa? Per ringraziare, lodare, be­nedire, esaltare, glorificare, cantare, gioire insie­me. Abbiamo visto la vittoria della vita sulla morte, dell’amore sull’egoismo; ci è stata data la speranza della nostra stessa vittoria! È mai possibile rimane­re indifferenti o pigri? Continuare a ciondolare tra interessi meschini e divertimenti insulsi? Appiatti­re il nostro desiderio su beni effimeri, che accre­scono la sete invece di placarla, che fanno sentire il vuoto già un attimo dopo la soddisfazione che sembrava immensa? Sentiamo un desiderio gran­de di vita, abbiamo bisogno di amore, custodiamo una speranza salda e vogliamo esprimere tutta la nostra gioia. Per questo ci mettiamo in cammino verso la casa di Dio.

I.LA CELEBRAZIONE EUCARISTICA

3. In alto i nostri cuori!
Entriamo dunque in chiesa e viviamo insieme con tutti gli altri il momento dell’eucaristia (cioè: di ringraziamento). Al centro della celebrazione c’è l’anàfora(1), una grande preghiera che inizia con un breve dialogo tra il celebrante e l’assemblea:
“Il Signore sia con voi!” –
“con il tuo spirito”.
“In alto i nostri cuori!” –
“Sono rivolti al Signore”.
“Rendiamo grazie al Signore nostro Dio!” –
“È cosa buona e giusta”.
“È veramente cosa buona e giusta rendere
grazie in ogni tempo e in ogni luogo…”.
Comincia così una grande preghiera in diver­se strofe che sfocia in una dossologia(2), cioè in una preghiera di lode che proclama la gloria di Dio e di Dio solo: “Per Cristo, con Cristo e in Cristo a Te, Dio Padre Onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria, per tutti i secoli dei se­coli!”. Gloria dunque al Padre, per mezzo di Gesù Cristo, nello Santo: qui la preghiera raggiun­ge il suo compimento e termina nel canto gioioso dell’Amen da parte di tutti. Amen: è così, dev’esse­re così, è giusto che sia così. Adesso i nostri cuori sono davvero “in alto”, sono rivolti al Signore e lo ammirano con stupore, gioia, riconoscenza. Enoi non cerchiamo più la gloria in noi stessi (nelle no­stre opere, nei risultati raggiunti…).

4. Il prefazio
 Ma entriamo più attentamente nel contenuto di questa grande preghiera. Dopo il dialogo iniziale (quel­lo che abbiamo riportato sopra) segue il prefazio(3) che loda Dio e narra le sue opere. Narrare le opere di Dio è già un modo di lodarlo; sono, infatti, opere ‘degne di Dio’ che portano l’impronta della sua gran­dezza e della sua santità; è sufficiente raccontarle per essere coinvolti in un movimento di ammira­zione gioiosa. I motivi per cui ringraziare il Signore sono tanti e tante sono le formule di prefazio che usiamo nel rito romano: formule diverse secondo i diversi tempi liturgici, secondo le feste della Ma­donna e dei santi, secondo i sacramenti che si ce­lebrano e così via. Ciascun prefazio sottolinea un aspetto della multiforme grazia di Dio, ma tutte le diverse formulazioni dicono in fondo una cosa so­la: l’opera per cui dobbiamo ringraziare il Padre è Gesù Cristo. In lui il ci ha rivelato e donato il suo amore e, nel suo amore, ci ha donato tutto. Le parole di Gesù ci hanno fatto intravedere il miste­ro affascinante di un Dio che è Padre e che ci ama con un amore tenero e vigoroso; le opere di Gesù ci hanno fatto sperimentare la gioia di essere cer­cati, chiamati, sanati e perdonati; la sua passione ci ha dimostrato la serietà del suo amore perché “non c’è amore più grande di chi dona la vita per i suoi amici” (Gv 15,13). Infine la risurrezione di Gesù ci ha offerto una speranza incorruttibile che nessuna potenza mondana è in grado di impedire o umilia­re. Per questo lodiamo e benediciamo. Il prefazio è preghiera gioiosa e luminosa; persino nelle Mes­se di esequie, quando stiamo piangendo la perdita di persone care e sentiamo il dolore del distacco, persino in quel momento continuiamo a dire: “È veramente cosa buona e giusta rendere grazie in ogni tempo e in ogni luogo…”. Lo possiamo fare perché anche lì, di fronte alla morte, ritroviamo i segni della presenza del Signore e abbiamo, da Lui, la promessa di una consolazione vera.

5. Santo, santo, santo!
 Questo primo momento della Preghiera eucari­stica culmina nel ‘Sanctus’: “Santo, santo, santo il Signore Dio dell’universo. I cieli e la terra sono pie­ni della tua gloria. Osanna nell’alto dei cieli. Bene­detto colui che viene nel nome del Signore. nell’alto dei cieli”. È il canto dei serafini, il primo degli ordini angelici, così come il profeta Isaia l’ha udito quando gli veniva affidata la missione profe­tica (cfr Is 6,3). Siamo minuscoli sulla faccia della terra, perduti come pulviscolo nell’immensità del cosmo; ma ora il nostro piccolo canto s’innalza fino al cielo, si dilata fino alle estremità della terra, fa eco ai cori stessi degli angeli e dai cori degli angeli è reso forte; una schiera celeste sostiene la nostra debole voce. La santità di Dio sorpassa ogni no­stra conoscenza, brucia ogni nostra impurità; per questo dal cuore dell’uomo scaturisce un canto di lode: “I cieli e la terra sono pieni della tua gloria”. Affermiamo così contemporaneamente due cose: la prima è che cielo e terra, nella loro immensità e armonia, alludono alla grandezza di Dio, la indica­no a chi ha occhi abbastanza puri per riconoscerla; la seconda è che cielo e terra sono stati creati per ricevere dentro di loro la bellezza di Dio ed esser­ne trasfigurati.
Il mondo è chiamato a riflettere, come in uno spec­chio terso, la gloria incorruttibile di Dio e questo avviene nell’uomo quando, attraverso una reale con­formazione a Cristo, egli vive in pienezza la sua vo­cazione di creatura fatta “a immagine e somiglianza di Dio” (Gn 1,26).

6. Per la forza dello Spirito
 Si potrebbe pensare che la preghiera sia già completa. E invece no; dopo aver unito la propria voce al coro degli angeli, la preghiera riprende con vigore a lodare e narrare. Ora al centro del rac­conto c’è un evento particolare della vita di Gesù: l’ultima cena, la cena che Gesù ha vissuto coi suoi discepoli il giorno prima di morire.
questa volta il celebrante, mentre narra quello che Gesù ha detto e fatto, accompagna le parole con alcuni gesti: prende un pezzo di pane, poi un calice di vino, su di essi rende grazie per darli poi in cibo e bevanda a tutti i presenti.
In questo modo egli non solo racconta ma ‘fa’(4) la cena del Signore. La ‘fa’ invocando lo Spirito San­to con una bellissima preghiera al Padre: “Ora, [Padre,] ti preghiamo umilmente: manda il tuo Spirito a santificare i doni che ti offriamo perché diventino il corpo e il sangue di Gesù Cristo, tuo Figlio e nostro Signore, che ci ha comandato di celebrare questi misteri”. Quando lo Spirito Santo è sceso su Maria di Nazaret, in lei ha preso carne umana la Parola eterna del Padre, il Figlio di Dio.
  Quando al momento del battesimo lo Spirito San­to è sceso e si è fermato su Gesù, la vita di Gesù è stata perfettamente sintonizzata sulla volontà del Padre. E quando nella sua passione Gesù “offrì se stesso senza macchia a Dio” lo ha potuto fare “con uno Spirito eterno” (Eb 9,14). È sempre per opera dello Santo che i pensieri, i deside­ri, le parole, le azioni, le sofferenze di Gesù hanno preso la forma della volontà di amore del Padre. È sempre lo Spirito Santo che imprime nel mondo, nell’uomo l’immagine di Gesù, la sua impronta, la sua ‘forma’. Dove opera lo il mondo prende la forma di Cristo. È quello che chiedia­mo in questo momento. Sull’altare ci sono pane e vino; sono frutti della terra, e quindi doni di Dio, trasformati in cibo e bevanda dal lavoro dell’uo­mo. Su questo cibo e bevanda viene invocato lo Spirito Santo perché diventino il corpo e il sangue di Gesù, Figlio di Dio.
Ma è possibile credere una cosa del genere? Non è più ragionevole interpretare tutto come una bella immagine, come un ricordo affettuoso di Gesù da custodire con cura? Se la Messa na­scesse da una nostra iniziativa, le nostre parole riuscirebbero solo a esprimere un desiderio di co­munione con Gesù che nasce dall’amicizia per lui. Ma è Gesù stesso che, facendo la cena con i suoi amici, ha comandato: “Fate questo in memoria di me”. Noi facciamo ogni cosa in obbedienza a Ge­sù; per questo siamo convinti che quanto chiedia­mo ci viene effettivamente donato e che lo Spirito Santo opera davvero la trasformazione del pane e del vino. Le specie (ciò che i sensi percepiscono) rimangono ovviamente immutate: colore e sapo­re, qualità fisiche e chimiche del pane e del vino non cambiano. Ma cambia radicalmente la volon­tà creatrice di Dio rispetto a questi elementi: Dio ci pone davanti questo pane e questo vino come cibo e bevanda che sono la presenza viva, attuale, efficace del suo Figlio; e quello che Dio definisce è la verità delle cose. Si compie la misteriosa pro­messa di Gesù: “La mia carne è vero cibo e il mio sangue è vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui” (Gv 6,55-56).

7. Ci ha donato il suo proprio Figlio
 “Mandando il suo Figlio in una carne simile a quella del peccato” (Rm 8,3), Dio ha sconfitto la forza del peccato in una carne umana come la no­stra e ci ha offerto la sua riconciliazione (cfr 2Cor 5,19). Davvero “Dio ha tanto amato il mondo da donare il suo Figlio Unigenito perché chiunque crede in Lui non muoia ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16). Ora questo dono ci è offerto nel segno sacramentale del pane spezzato e del vino versa­to. Si capisce facilmente l’acclamazione: “Mistero della fede!”, alla quale tutti insieme facciamo eco: “Annunciamo la tua morte, Signore; proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta!” L’acclamazione vuol dire almeno due cose: anzi­tutto che siamo davanti a un mistero che deride le percezioni dei nostri sensi. Come scriveva san Tommaso: “Sulla croce solo la tua divinità era na­scosta; ma qui anche la tua umanità rimane invi­sibile…” (In cruce latebat sola deitas, at hic latet simul et humanitas).
C’è di più: tutto quanto la fede proclama (l’amo­re di Dio per noi, la nostra comunione con Lui, la speranza della vita eterna), tutto questo è conte­nuto nel mistero dell’eucaristia. Oggi si fa memo­ria della passione di Gesù; oggi ci è comunicato il dono della sua vita, offerta per noi sulla croce una volta per sempre; oggi pregustiamo il compi­mento della nostra speranza, la partecipazione alla gloria di Dio. Piccolissimo è il segno (un pezzo di pane spezzato) ma immense sono le dimensioni del mistero.
Accogliamo dunque questo dono con stupore e gioia, con riconoscenza e lode. Solo in questo modo il dono viene veramente accolto; e solo se viene liberamente accolto esso entra a fare parte della nostra vita e produce l’effetto voluto: la co­munione con Dio e tra di noi. Se qualcuno mi of­fre un regalo e io semplicemente lo intasco senza un sorriso, senza un sentimento di riconoscenza, senza una parola di ringraziamento, non si verifica nessun evento di dono. Certo, tengo in tasca l’og­getto che mi è stato regalato; ma in realtà ho preso solo l’oggetto, non il dono; non ho accolto l’amici­zia che accompagnava l’oggetto e lo trasformava in dono; s’è incrementato il mio patrimonio econo­mico, ma io sono rimasto solo, privo dell’amicizia che mi veniva offerta. È così anche per i doni di Dio; solo quando l’uomo ringrazia Dio per le sue grandi opere, quelle grandi opere diventano real­mente opere ‘per lui’, capaci di salvare la sua vita perché lo pongono in comunione con Dio, autore e origine del dono. Gli Israeliti, che attraversando il Mar Rosso sono passati dalla schiavitù alla liber­tà, dalla morte alla vita, intonano il canto di lode a Dio che li ha liberati: “Voglio cantare in onore del Signore perché ha mirabilmente trionfato, ha get­tato in mare cavallo e cavaliere. Mia forza e mio canto è il Signore, egli mi ha salvato. È il mio Dio e lo voglio lodare, è il Dio di mio padre e lo voglio esaltare!” (Es 15,1-2). Nello stesso modo gli elet­ti, che hanno vinto la battaglia contro le potenze mondane del male, intonano il cantico dell’Agnel­lo: “Grandi e mirabili sono le tue opere, o Signore onnipotente; giuste e vere le tue vie, Re delle gen­ti… perché i tuoi giusti giudizi si sono manifestati” (Ap 15,3.4). Il canto di lode attraversa i secoli nella celebrazione perenne della Pasqua, vittoria di Dio sul male e sulla morte: “Mia forza e mio canto è il Signore, egli è stato la mia salvezza… Questo è il giorno fatto dal Signore; rallegriamoci ed esul­tiamo in esso” (Sl 118,14.24). Mediante la lode ci apriamo gioiosamente ai doni di Dio per averne parte.

8. La reciprocità del dono
 È legge del dono che quanto è offerto gene­rosamente e viene accolto con riconoscenza dal destinatario del dono susciti una risposta di reci­procità. Ricevere un dono fa di noi dei ‘debitori’; non dal punto di vista giuridico, s’intende, ma se­condo la dinamica dei rapporti umani. Accetto il tuo dono con gioia; sono contento che tu mi ab­bia manifestato col dono la tua attenzione e il tuo amore; ti accolgo e riconosco come autentico ami­co. Desidero allora esprimere a mia volta l’amore col dono; dirti il mio affetto dandoti un segno di vicinanza. Un dono sollecita l’altro; un dono rice­vuto e contraccambiato rende forte il legame di amicizia e di comunione. Credo sia questa la logi­ca che ci porta, dopo la consacrazione, a pregare dicendo: “Celebrando il memoriale del tuo Figlio, morto per la nostra salvezza, gloriosamente risor­to e asceso al cielo, nell’attesa della sua venuta ti offriamo, Padre, in rendimento di grazie, questo sacrificio vivo e santo”.
È curioso e paradossale: la nostra piccola as­semblea, la Chiesa, presume di offrire qualcosa a Dio! È giusto rimanere stupiti. Come è possibile?  
Forse che Dio ha bisogno di ricevere qualcosa da noi? La nostra lode accresce forse la sua gloria? Non stiamo forse riducendo Dio alla nostra misu­ra? Gli interrogativi sono giusti e ci costringono a riflettere e cercare di capire. Il Sl 50 ha già notato il paradosso dei sacrifici offerti a Dio e lo ha espres­so chiaramente. Dice Dio: “Non prenderò vitelli dalla tua casa né capri dai tuoi ovili… Se avessi fa­me non verrei a dirlo a te: mio è il mondo e quanto contiene… Offri a Dio, come sacrificio, la lode” (Sl 50,9.12.14). Eppure la reciprocità del dono rimane necessaria; solo se rispondiamo al dono di Dio con un dono nostro, che dica e sigilli il nostro amore, la comunione di Dio con noi diventa autentica ed efficace. Donare qualcosa di nostro a Dio è il mo­do necessario per riconoscerci debitori verso di lui, accettare volentieri questa nostra condizione di debito, consolidare il legame che Dio stesso ha voluto inaugurare con il suo dono(5).
 E che cosa possiamo offrire a Dio? Tutto quel­lo che siamo e abbiamo ci viene da Lui.
Non pos­siamo quindi offrigli se non i suoi stessi doni: “In questo sacrificio, o Padre… offriamo alla tua mae­stà divina, dai doni che ci hai dato, la vittima pura, santa e immacolata, pane santo della vita eterna e calice dell’eterna salvezza” (Canone Romano). Ripeto perché non ci siano equivoci. La nostra of­ferta non è né per rendere più ricco Dio (non ne ha bisogno) né per sentirci capaci di dare qualcosa a Lui (non ce n’è bisogno). È invece il modo più in­tenso di esprimere la riconoscenza che il suo dono incredibile (ci ha donato il suo Figlio!) ha suscita­to nel nostro cuore; è per legare indissolubilmente la nostra esistenza alla sua e accettare tutto il di­namismo della comunione che Dio vuole stabilire con noi uomini perché siamo suo popolo.

9. La seconda epíclesi
 A questo punto la Preghiera eucaristica contie­ne una seconda epìclesi( 6) (invocazione dello Spirito Santo). La prima volta avevamo invocato lo perché trasformasse il pane e il vino nel corpo nel sangue di Cristo; adesso lo invochiamo perché operi in noi e, inserendoci in Cristo, ci faccia di­ventare “un solo corpo e uno solo spirito”. È que­sto, in realtà, il frutto dell’eucaristia. Gesù non ci ha dato l’eucaristia come segno statico della sua presenza in mezzo a noi, ma come forza che vuo­le operare in noi una trasformazione profonda e sorprendente. Quando contempliamo l’eucaristia non siamo solo davanti a una presenza da ammi­rare, ma a un dramma d’amore nel quale lasciarci coinvolgere per diventarne anche noi attori, pro­tagonisti.
L’eucaristia ci è donata per aprire a noi la pos­sibilità di vivere ‘in Cristo’ e quindi di diventare, in Lui, un unico corpo, appunto la Chiesa, corpo di Cristo. Se dunque è la Chiesa che fa l’eucaristia quando, obbedendo al comando di Gesù, fa me­moria della sua Pasqua, è vero anche e soprattutto che l’eucaristia fa la Chiesa perché trasforma un gruppo umano nel corpo vivo e santo del Signo­re. Il corpo è la nostra presenza al mondo e agli altri; nel corpo noi entriamo in relazione con la società di cui facciamo parte. L’eucaristia edifica la Chiesa come corpo di Cristo perché trasforma tutti coloro che vi partecipano, facendone membra dell’unico corpo di Cristo (cfr LG 26). Essi dun­que, tutti insieme, gli uni con gli altri e gli uni per gli altri, manifestano la presenza attiva di Cristo nella storia; trasformati dall’amore di Cristo, es­si immettono nel tessuto della storia sentimenti e comportamenti segnati dalla bontà, dalla mitezza, dalla misericordia, dalla fedeltà di Gesù. In que­sto modo, attraverso l’azione del corpo di Cristo (parole e fatti dei credenti nella Chiesa), la storia riceve la presenza in lei dell’amore di Dio come seme che germoglia per diventare albero, come lievito che fa fermentare la massa di farina, come amore fraterno che edifica, progressivamente, la civiltà dell’amore. Lo chiediamo esplicitamente quando preghiamo: “Egli [lo Spirito Santo] faccia di noi un sacrificio perenne a Te gradito, perché possiamo ottenere il regno promesso insieme ai tuoi eletti…”.

10. In comunione con tutta la Chiesa
 È il momento in cui la preghiera ricorda Maria Santissima, perfetta realizzazione della Chiesa, e i santi, anch’essi espressione autentica di una Chie­sa vissuta e si raccomanda alla loro intercessio­ne. Poi coinvolge nel movimento di intercessione tutta la Chiesa unita attorno al Papa: il vescovo, il collegio dei vescovi, i preti, il popolo intero, i pre­senti. L’umanità intera viene posta davanti a Dio come destinata ad assumere la forma di Cristo. In parte questa forma è già stata assunta e portata a pienezza: in Maria, soprattutto, poi nei santi noti o ignoti che ci hanno preceduto. “Anche noi, dun­que, circondati da tale moltitudine di testimoni… corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo lo sguardo fisso su Gesù, auto­re e perfezionatore della fede” (Eb 12,1-2). Quello che è compiuto in Maria e nei santi venga compiuto anche in noi in modo che tutti noi diventiamo “un sacrificio perenne” gradito a Dio. È quello che Pa­olo chiama il “culto spirituale” che sale a Dio come sacrificio di soave odore (cfr Rm 12,2). L’eucaristia tende a questo, a trasformare la vita. Dobbiamo ri­cordarlo sempre perché non si pensi che l’eucaristia sia un rito chiuso in se stesso, da celebrare corret­tamente e con fervore, ma senza legami (o solo con legami estrinseci) con la vita. L’eucaristia è un rito che fa da mediazione tra due eventi esistenziali: da una parte la passione (e la vita) di Gesù, dall’altra la vita cristiana. Morendo sulla croce, Gesù non ha compiuto un rito; piuttosto ha portato a compimen­to la sua vita nella forma dell’obbedienza fiduciosa al Padre (“non si compia la mia volontà, ma la tua” Mc 14,36) e dell’amore oblativo per gli uomini (“nes­suno ha un amore più grande di chi dona la vita per i suoi amici” Gv 15,13). Il rito prende tutta la sua for­za dall’esistenza di Cristo realmente donata e, a sua volta, produce efficacemente un’esistenza donata ai fratelli: “Da questo abbiamo conosciuto l’amore: Egli ha dato la vita per noi. Quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli.” (1Gv 3,16). La vita (di Gesù) genera il rito e il rito genera la vita (dei discepoli).(7)
Infine la Preghiera eucaristica raccoglie la me­moria dei defunti perché nessuno manchi alla co­munione che l’eucaristia genera. Tutto culmina, come abbiamo ricordato, nella dossologia: onore e gloria a Dio Padre, attraverso Cristo, nell’unità dello Spirito Santo. L’Amen del popolo sigilla la preghie­ra e realizza la partecipazione di tutti. La preghiera è fatta da colui che presiede in quanto mandato da Cristo, ma è fatta a nome di tutti e tutti debbono sentirsi coinvolti. Lo fanno appunto cantando a una sola voce la conclusione della preghiera: l’Amen.

11. Prima e dopo la preghiera eucaristica
 Abbiamo così cercato di cogliere il senso della grande “preghiera eucaristica” (detta anche: ‘Cá­none della Messa’, ‘Anáfora’) che costituisce il cuore della Messa. Questa preghiera è preceduta immediatamente dalla presentazione delle offerte e seguita dalla comunione.
Dopo la “liturgia della Parola” vengono porta­te all’altare, in processione, le cose necessarie per l’azione eucaristica: il pane e il vino. Di loro la pre­ghiera sottolinea che sono “frutto della terra e del lavoro dell’uomo.” Gesù non ha scelto dei prodotti ‘naturali’ che escono così dalla terra, ma ‘artificia­li’, trasformati dall’attività dell’uomo. Sono questi prodotti che l’azione dello Spirito trasformerà nel­la presenza del Cristo donato per noi. È bello allora pensare che in quel pane e quel vino che vengono presentati all’altare ci siamo noi, la nostra vita, il nostro lavoro, la fatica, le paure e le gioie; tutto quel complesso di sentimenti e di esperienze che costituiscono il nostro vissuto. Ci consegniamo a Dio perché faccia di noi quello che vuole, perché ci ‘usi’ come strumento nella realizzazione della sua volontà di salvezza.

 I riti di comunione

12. Prendete e mangiate
 Gesù dice ai suoi discepoli: “Prendete e man­giate… prendete e bevete…”. Il motivo lo abbiamo già espresso: l’eucaristia è il dramma dell’amore di Dio per noi nel quale siamo chiamati a entrare liberamente con tutta la nostra vita: pensieri e de­sideri, memoria e speranze, azioni e relazioni uma­ne. Fare la comunione significa assimilare il dono di Dio e permettere a questo dono di plasmare la nostra esistenza umana trasmettendole la sua for­ma, la forma dell’amore che si mette in gioco per la vita degli altri. Più volte è stato notato il senso pieno delle parole con cui Gesù comanda di fare l’eucaristia: “Fate questo in memoria di me”. Vuol dire certamente: fate i gesti che io faccio, dite le parole che io dico. Ma vuol dire anche: fate quel­lo che io sto facendo e di cui pane e vino sono sa­cramento. Come io dono la mia vita in obbedienza al comando del Padre, anche voi fate della vostra vita un dono di amore perché anche la vostra vi­ta, come la mia, diventi realmente pane spezzato e sangue versato per la vita del mondo.
C’è qualcosa di incredibile e nello stesso tempo di affascinante in questo dramma che Gesù vive e del quale siamo chiamati a diventare partecipi. Amare il mondo (gli uomini) così tanto da giun­gere a consegnare la nostra vita perché il mondo viva. Consegnare la propria vita significa perdere tutto, non conservare nulla per sé. È possibile? È saggio? Non è forse la vita l’ultima nostra ricchez­za, l’unica? Eppure Gesù “non è venuto per esse­re servito, ma per servire” e cioè “per dare la sua vita come riscatto per la moltitudine” (Mc 10,45). La legge della vita di Gesù è quella del chicco di grano che “se non muore, rimane solo; se muore, produce molto frutto” (Gv 12,24). Questa è an­che la legge che scaturisce dall’eucaristia; la fede ci aiuta a vedere che proprio nel dono di sé l’esi­stenza dell’uomo giunge a un vero compimento. Non è gioia piena se non quella che si comunica e si dona agli altri; non è vita piena se non quella che fa vivere gli altri. Gesù “è passato da questo mondo al Padre” quando ha portato a perfezione il sacrificio della sua vita.
Fare la comunione significa accettare di entra­re in questa logica di vita e lasciare che la forma della vita di Gesù, impressa nel pane eucaristico spezzato, generi una forma simile nei nostri senti­menti e nei nostri comportamenti. “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. Come il Padre che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me” (Gv 6,56-57). Se dimoriamo in Gesù, il senso è che viviamo entro lo spazio che Gesù ha creato con la sua vita e il suo amore. Con­tinuiamo a vivere nel mondo, certo, ma lo stile, la logica, i desideri non sono più quelli appresi dal mondo ma quelli che lo Spirito di Gesù suscita in noi. Non sono più i modelli mondani che dirigo­no le nostre scelte, ma i modelli evangelici. I mo­delli mondani pongono come obiettivo il successo in tutte le sue forme (ricchezza, potere, godimento); i modelli evangelici pongono come obiettivo l’amo­re (“Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato”). Parallelamente, se Gesù rimane in noi vuol dire che egli plasma la forma del nostro cuore secondo la forma del suo. Per chiarire meglio possiamo dire che un’esistenza ‘mondana’ è quella che, come un buco nero, attira a sé ogni cosa e la distrugge per nutrirsene; un’esistenza evangelica è quella che, co­me seme, si sviluppa e produce vita per nutrire gli altri. L’eucaristia vuole operare questa rivoluzione spirituale. Con le stupende parole della lettera ai Ro­mani: “Nessuno di noi vive per se stesso e nessuno di noi muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore” (Rm 14,7-8). ‘Per se stesso’ di­venta: ‘per il Signore’; l’ansia di possedere diventa gioia di donare.

13. Un solo pane, un unico corpo
 Noi facciamo la comunione perché siamo in­vitati dal Signore (“Beati gli invitati alla cena del Signore”). Accogliere l’invito di Gesù è la nostra ‘beatitudine’, è fonte della nostra gioia. È accetta­re di ricevere la vita da colui che, nel preparare il banchetto, ha messo tutta la sua vita. Ma il discor­so non si chiude qui. La comunione ha una dimen­sione essenzialmente sociale e dobbiamo renderla esplicita. Scrivendo ai Corinzi, Paolo invita i cre­denti a evitare ogni forma di idolatria e porta una motivazione tipicamente cristiana: non si può met­tere insieme la comunione con Cristo e la comunio­ne con gli idoli: “Parlo come a persone intelligenti; giudicate voi stessi quello che dico: il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse co­munione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipia­mo dell’unico pane” (1Cor 10,15-17). Non siamo so­li ad accostarci all’eucaristia; siamo mescolati con tutta l’assemblea, con tutti i discepoli. Ci accostia­mo all’altare per mangiare e per bere; per entrare in comunione col Signore vivente. siccome il Si­gnore nel quale l’eucaristia c’introduce è l’unico Si­gnore, aderendo a lui veniamo a costituire un’unica realtà, un unico corpo. L’abbiamo ricordato sopra e dobbiamo solo ripeterlo: l’eucaristia fa la Chiesa, edifica il corpo vero di Cristo, rende presente la per­sona di Cristo nella storia del mondo attraverso la realtà visibile della Chiesa, suo corpo.  
Siamo davanti a un tema davvero centrale. Il vangelo di Giovanni dice chiaramente che lo sco­po della passione e della morte di Gesù è “racco­gliere insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,52). Nella sua ultima, suprema preghiera Gesù chiede per i discepoli l’unità, un’unità così profon­da e intensa da essere il prolungamento sulla terra dell’unità che unisce il Padre e il Figlio, uno nell’al­tro, uno per l’altro: “Tutti siano una cosa sola; co­me Tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17,21). La gloria di Dio, che cielo e terra sono chiamati a ricevere, è esatta­mente l’amore che unisce le persone divine in un dono reciproco totale, senza confonderle ma an­che senza separarle o allontanarle una dall’altra.
L’eucaristia è in vista dell’edificazione di questa unità; la comunione eucaristica (mangiare e bere) produce in noi questa unità.

14. L’unità della Chiesa
 Le conseguenze sono infinite. Ad esempio: quando san Paolo viene a sapere che a Corinto i discepoli sono divisi perché si sono formati grup­pi che fanno riferimento a un predicatore o a un altro, reagisce seccamente chiedendo: “Cristo è stato forse diviso?” (1Cor 1,13). Il Cristo che siamo e che cresce in noi con l’ascolto dell’unica parola e la partecipazione allo stesso banchetto è l’unico Cristo. Non è possibile partecipare alla medesima eucaristia e dividersi, considerandosi superiori agli altri. E quando l’Apostolo viene a sapere che nella cena dei Corinzi si riproducono le differenze sociali tra ricchi e poveri, obietta: “Quando vi radunate in­sieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore” (1Cor 11,20). Nella cena privata ciascuno imbandisce la tavola secondo le sue possibilità; ma nella cena del Signore tutti sono uguali e partecipa­no similmente alla medesima mensa. La comunione dei beni della prima comunità di Gerusalemme ha la sua radice nella comunione eucaristica (cfr At 2,44.46). Lo ripeterà la lettera di Barnaba scriven­do: “Renderai comune ogni cosa col tuo prossimo e non dirai che è tua. Se avete in comune ciò che è incorruttibile, quanto più quello che è corruttibile.” (EpBarn xix,8)(8)
Tra cristiani non ci possono essere divisioni perché queste contraddicono quello che nella cena realmente avviene. L’eucaristia assume la varietà infinita delle condizioni umane ma le tra­sforma nell’unità del corpo di Cristo; e fa questo non attraverso una eliminazione delle differenze, ma attraverso un vincolo di amore che trasforma le differenze in complementarità.

 La liturgia della Parola

15. La liturgia della Parola
 Abbiamo così ripercorso il cammino della li­turgia eucaristica: la grande ‘Preghiera eucaristi­ca’ (o anàfora) preceduta dalla presentazione del­le offerte e seguita dalla comunione. Ci rimane da scoprire perché tutto questo sia preceduto dalla liturgia della Parola. L’eucaristia contiene tutto il mistero di Dio (il dramma di salvezza che Dio ha voluto e che si compie nella storia) sotto il segno sacramentale di un piccolo pane spezzato e di una coppa di vino versato; la parola di Dio esprime il medesimo mistero, ma nella forma di una lunga narrazione che parla di Israele, dei profeti, di Ge­sù, della comunità cristiana fino alla promessa dei cieli nuovi e terra nuova nell’Apocalisse. La Bib­bia svolge attraverso il lungo dramma della storia quello che l’eucaristia condensa nel gesto sempli­cissimo ma infinitamente denso della cena.
Per iniziare a comprendere davvero l’eucari­stia bisogna metterla in relazione anzitutto con la vita di Gesù, con il giovedì santo. Quella sera, ce­lebrando la Pasqua coi suoi discepoli, Gesù pren­de del pane, lo spezza, lo offre ai discepoli e dice: “Questo è il mio corpo che sarà consegnato (alla morte) per voi”. Fa lo stesso col calice del vino e dice: “È il calice del mio sangue – il sangue dell’al­leanza – che sarà versato per voi e per molti in remissione dei peccati”. Dunque il corpo di Gesù è un pane spezzato; quel pane è il corpo di Gesù spezzato per noi. Gesù non ha tenuto gelosamen­te per sé la sua vita ma l’ha donata e questo dono è presente in un pezzo di pane dato ai discepoli perché lo mangino. In modo simile il sangue (la vita) di Gesù è vino versato; quel calice di vino è il sangue di Gesù sparso (versato) per la salvezza del mondo. Il gesto è semplicissimo ma impressionan­te: vi s’incontrano vita e morte (la morte di Gesù che dà vita al mondo), uomo e Dio (l’obbedienza umana di Gesù al Padre che unisce in alleanza Dio e uomo), cosmo e coscienza (pane e vino – frutti della terra e del lavoro dell’uomo – diventano luo­go in cui viene portato a compimento l’amore).
Non basta; bisogna mettere l’ultima cena di Gesù in rapporto con la croce del venerdì santo, quando il sangue di Gesù sarà veramente sparso sul Calvario e quando il corpo di Gesù diventerà una vita spezzata. Per questo il racconto comincia dicendo: “Nella notte in cui veniva tradito…” ; sia­mo così portati a pensare subito agli avvenimenti della passione. Senza la morte effettiva sulla croce, l’ultima cena di Gesù sarebbe stata solo un geniale pezzo di teatro; senza le parole della cena, la pas­sione di Gesù sarebbe stata solo la morte nobile di un eroe religioso. La cena, con i gesti e le parole di Gesù, illumina il significato della croce e la cro­ce dà consistenza alle parole e ai gesti della cena. Non solo: la passione di Gesù si fa evento dei di­scepoli nella cena e la cena rende perennemente presente per i discepoli la passione di Gesù.

16. Tutto quello che Egli ha detto e fatto
 Procediamo: non è possibile comprendere la ve­rità del venerdì santo (la passione di Gesù che dona la sua vita per noi) senza metterlo in relazione con tutta la vita terrena di Gesù, coi trent’anni che egli ha passato in mezzo agli uomini e soprattutto con quegli ultimi mesi della sua vita nei quali “è passato facendo del bene e sanando tutti coloro che erano sotto il potere del diavolo perché Dio era con lui” (At 10,38). Solo perché tutta la vita di Gesù è stata vis­suta sul registro dell’amore, anche la sua morte può essere interpretata con verità come dono e gesto di offerta. La passione può essere solo il sigillo posto su un’esistenza spesa interamente per amore. Sen­za un’esistenza spesa per ‘dare la vita’ agli uomini, la passione resterebbe un atto eroico ma isolato e, in fondo, presuntuoso; senza la conclusione nella pas­sione, la vita terrena di Gesù resterebbe un romanzo incompiuto che può ancora essere completato con diversi finali. Insieme, la vita terrena di Gesù e la sua morte in croce costituiscono un dramma completo e definitivo: “Dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13,1). Così san Gio­vanni inizia il racconto della passione: la sua vita è stata un dramma motivato dall’amore; la sua morte diventa il compimento dell’amore. E siccome la sua morte è vita donata, quel pane dato da mangiare e quel vino dato da bere contengono veramente la pie­na generosità dell’amore.
Ancora. La vita di Gesù è interpretata dal Nuovo Testamento come compimento della storia di sal­vezza che Dio ha inaugurato col popolo di Israele. In Gesù «tutte le promesse dei profeti sono diventa­te ‘sì’» (2Cor 1,20); la speranza di Israele ha in Gesù la sua manifestazione più evidente. Possiamo dire che il gesto della cena con cui Gesù raccoglie in una straordinaria sintesi tutta la sua vita, raccoglie nello stesso tempo tutta la storia di Israele: l’obbedienza alla Legge è lì; le promesse dei profeti sono lì; la sa­pienza s’incarna lì; il peccato è svelato e perdonato lì… I diversi fili che percorrono la storia della salvez­za s’intrecciano nella Pasqua di Gesù. Quando Gesù dice: “Io sono la vera vite” (Gv 15,1), il significato di queste semplicissime parole può essere espresso co­sì: Israele è la vigna che Dio si è piantato, di cui si è preso cura e dalla quale si attendeva il frutto abbon­dante dell’obbedienza alla Legge (alla sua volontà). Ebbene, questa vigna è Gesù. Da lui, dalle sue parole e dai suoi gesti, Dio riceve quell’obbedienza fiducio­sa dell’uomo che era l’obiettivo ultimo della creazio­ne. Reciprocamente Dio è presente nelle sue opere in modo riconoscibile e definitivo. Non è possibile comprendere anche solo approssimativamente il si­gnificato della vita di Gesù senza collocarla all’inter­no della storia di Israele a cui appartiene.
Facciamo allora l’ultimo passo. Nel rapporto di alleanza tra Dio e Israele si anticipa e si costruisce la vocazione dell’umanità intera e quindi, implici­tamente, lo scopo stesso della creazione, del cielo e della terra. Abramo, infatti, è chiamato perché la benedizione di Dio (e cioè il dono abbondante della vita che viene da Dio) giunga, attraverso di lui, a tut­ti gli uomini (cfr Gn 12,3). E la creazione stessa non ha, nel disegno di Dio, altro fine che questo: che lo splendore della vita divina penetri nel cosmo, lo il­lumini e lo trasfiguri; che la materia riceva dentro di sé la forza della vita di Dio e giunga così a riflettere la sua gloria.

17. L’eucaristia compimento del cosmo e della storia
 Ho esagerato? Ho detto che nel gesto della cena di Gesù è contenuta in forma ‘condensata’, ‘sinteti­ca’, tutta la sua vita, quindi la storia di Israele, quindi il dramma dell’umanità intera, quindi il senso della creazione e del cosmo. È troppo? Capisco che possa sembrare così, ma in un’ottica di fede le cose stan­no proprio come ho detto. E forse non è impossibile capire (che è cosa diversa dal credere). Nell’eucari­stia, per la forza della parola che racconta Gesù e per l’azione dello Spirito Santo che viene invocato, pane e vino diventano il corpo e il sangue di Cristo, quindi un atto puro di obbedienza a Dio e di amore agli uomini. È assurdo pensare che il cosmo esista proprio per giungere a generare l’atto di amore? Un atto di sottomissione fiduciosa e gioiosa al Creatore? Un atto di amore oblativo in cui esistere e donare si identificano? Credere cioè che l’evoluzione della ma­teria e delle specie che ha condotto alla formazione dell’homo sapiens sapiens abbia, alla fine, questo intento: di formare la civiltà dell’amore nella quale l’amore, che costituisce l’esistenza originaria di Dio, diventa la struttura profonda delle relazioni umane nel cosmo?
La ‘liturgia della Parola’, con cui inizia la Messa, proclama il disegno di Dio sul cosmo e sull’umanità e quindi interpreta nel modo più ricco il senso dell’eu­caristia. Nell’eucaristia tutto si concentra in un unico semplicissimo gesto: quello di donare la propria vita per amore. Con la liturgia della Parola questo gesto viene messo in relazione con tutta la realtà del mon­do e acquista così il suo pieno significato. Cosa può significare l’eucaristia per chi non sa nulla di Gesù? E cosa potrebbe significare Gesù per chi non sapes­se nulla della storia concreta in cui Gesù è inserito? Parola e sacramento si spiegano e si interpretano a vicenda. Insieme costituiscono e trasmettono il mi­stero della salvezza che Dio opera per noi.

 

II. LA CURA DELL’ARS CELEBRANDI


18. Culmen et fons
 La prima parte della nostra riflessione voleva rendere conto delle affermazioni forti del Concilio: “La liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù” (SC 10). Il sacrificio eucaristico è “fonte e apice di tutta la vita cristiana” (LG 11). “Nella santissima eucaristia è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra Pasqua e pane vivo… La sinassi [assem­blea] eucaristica è dunque il centro della comuni­tà dei fedeli” (PO5). Non si tratta di affermazioni approssimative, ma precise, che esprimono cor­rettamente la fede della Chiesa e che debbono es­sere rispecchiate nella sua prassi pastorale.
Ne deriva che il primo impegno pastorale è la cura per una celebrazione degna dell’eucaristia domenicale. Qui la comunità cristiana viene con­vocata dal Signore, ascolta la sua Parola, fa me­moria di Gesù e della sua Pasqua, partecipa alla mensa del corpo e del sangue del Signore, viene plasmata dallo Spirito Santo ed edificata come un solo corpo in Cristo. Certo, l’eucaristia non è tutta la vita della Chiesa, ma chiaramente ne è il cen­tro e il culmine, ne deve diventare l’origine vitale. Questa centralità deve riconoscersi nell’importan­za che si dà alla preparazione e alla celebrazione stessa. Vorrei che ogni parrocchia avesse, la do­menica, una celebrazione particolarmente curata, che manifesti nel modo più pieno la convocazione della comunità parrocchiale stessa.

19. Una celebrazione degna
 Anzitutto con una preparazione della celebra­zione che non lasci spazio a improvvisazioni su­perficiali o a sciatteria. La celebrazione è opera concorde di molte persone: il celebrante, il dia­cono, i ministri dell’altare, i lettori, il coro e l’as­semblea; quelli che hanno preparato e ornato la chiesa, quelli che raccolgono la questua, quelli che formulano le intenzioni della preghiera universale, quelli che portano il necessario con la processio­ne offertoriale… Una buona celebrazione richiede che ciascuno sappia fare la sua parte coordinan­dosi con gli altri. Non si tratta di fare cose strane o gesti enfatici. La bellezza di una celebrazione si misura da quanto essa è semplice e spontanea. Quando non ci si accorge di chi fa le cose e del modo in cui le fa, vuol dire che le cose sono sta­te fatte bene. Se un lettore legge bene, chi ascolta fa attenzione alle parole e al loro significato, non al lettore; se il celebrante celebra bene, chi parte­cipa non è attirato dalla figura del celebrante ma è coinvolto nell’azione liturgica. La preparazione accurata non serve a mettere in luce gli attori, ma al contrario a nasconderli in modo che l’azione liturgica proceda senza intoppi, senza distrazio­ni e lasci trasparire che il vero protagonista è il Signore.
Serve, ancora, la preparazione di alcuni a ren­dere possibile la partecipazione di tutti alla cele­brazione: “La Chiesa volge attente premure affin­ché i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma, compren­dendolo bene per mezzo dei riti e delle preghie­re, partecipino all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente” (SC 48). La ‘Chiesa’ di cui parla il Concilio usa queste attente premure con­cretamente attraverso i preti, i diaconi, tutti quelli che possono preparare la celebrazione.

20. La liturgia della Parola
 Per quanto riguarda la liturgia della Parola, chiedo di riprendere anzitutto le osservazioni che si trovano nella Lettera pastorale dell’anno scor­so. È bello che nella celebrazione si percepisca il passaggio dalla liturgia della Parola alla liturgia eu­caristica. La liturgia della ha il suo centro all’ambone e alla cattedra; la liturgia eucaristica ha il suo centro nell’altare. Vale la pena riconoscere a ciascun luogo liturgico il suo significato; quindi non predicare dall’altare, non dare gli avvisi par­rocchiali dall’ambone ma eventualmente da un leggio.
La liturgia della Parola termina con la Preghie­ra universale (o ‘dei fedeli’). Le intenzioni di pre­ghiera siano intenzioni di preghiera, non piccole omelie, non trattati teologici, non sfoghi perso­nali. Deve risultare subito chiaro soprattutto ‘per chi’ si prega. Il Messale indica che la successione delle intenzioni è ordinariamente questa: a) per le necessità della Chiesa; b) per i governanti e la salvezza di tutto il mondo; c) per tutti quelli che si trovano in particolari necessità; d) per la comu­nità locale. Se non ci sono motivi si stia a questa indicazione con formule brevi, chiare, in modo che tutti i fedeli possano rispondere facilmente: “Ascoltaci, Signore”.

21. La liturgia eucaristica
 Dopo la liturgia della Parola si prepara l’altare-mensa per l’eucaristia. Vengono portati processio­nalmente all’altare pane e vino, cioè gli elementi sui quali verrà invocato lo Spirito e per i quali si renderà grazie al Padre; possono essere portati do­ni per la Chiesa o per i poveri. Non è bello, inve­ce, portare all’altare materiali vari che non hanno nulla a che fare con la celebrazione dell’eucaristia. Il pane e il vino contengono già tutto: sono frutto del lavoro umano e quindi hanno in sé la gioia e la fatica, le delusioni e le speranze che accompa­gnano il vivere quotidiano.
Vale la pena anche segnalare l’inizio della gran­de “preghiera eucaristica”. Basta fare una piccola pausa che distingua dalla precedente ‘preghiera sulle offerte’ in modo da rendersi conto che inizia un movimento celebrativo nuovo. Il prefazio va na­turalmente proclamato a voce chiara, mai con en­fasi ma sempre con convinzione: è scuola raffinata di ringraziamento e di lode. Il Sanctus andrebbe sempre cantato; non riusciremo a cantarlo come i cori angelici, ma dobbiamo esprimere l’adorazio­ne gioiosa e consapevole della maestà di Dio.
Sulla preghiera eucaristica l’unica cosa che mi sento di dire è che venga pronunciata consapevol­mente (sapendo cioè e credendo quello che si di­ce) e in maniera che possa essere capita e seguita dall’assemblea. È un’unica grande preghiera, ma è articolata in diverse strofe e bisogna che lo stacco tra una strofa e l’altra sia percepito. La narrazio­ne-memoria della cena è accompagnata dall’ele­vazione. In realtà si tratta di una ‘ostensione’ che vuole mostrare all’assemblea il pane e il vino ‘eu­caristizzati’ (la vera elevazione è quella che si fa al termine della preghiera eucaristica). Anche qui l’azione è accompagnata da un’acclamazione: Mi­stero della fede! Se è possibile, anche questa ac­clamazione dovrebbe essere cantata. Così come è naturale che sia cantata la conclusione della pre­ghiera eucaristica con ‘elevazione’ della patena e del calice: “Per Cristo, con Cristo e in Cristo…”. La risposta dell’assemblea (Amen!) è decisiva per­ché dice la partecipazione di tutti alla preghiera del celebrante; non dovrebbe passare inosservata come un ‘amen’ qualsiasi, ripetuto stancamente.

22. La comunione
 Prima della comunione ci si scambia il segno della pace. Posto a questo punto della celebrazio­ne, il senso è che la pace ‘parte’ dall’altare (dal cele­brante) per raggiungere tutta l’assemblea. In realtà questo momento è sentito piuttosto come segno di riconciliazione e di fraternità (come è nel rito am­brosiano, dove lo scambio di pace è alla fine della liturgia della Parola). Il rischio è che il gesto inten­so della pace (abbraccio, stretta di mano) provochi un po’ di confusione e crei distrazione proprio nel momento in cui ci si prepara alla comunione. Ser­ve aspettare che lo scambio di pace sia completato prima di intonare il canto dell’Agnello di Dio – che non deve mai essere tralasciato – con la frazione del pane.
Per quanto riguarda la comunione, l’attenzio­ne essenziale dev’essere a custodire l’ordine e il raccoglimento. Quando i comunicandi si affollano e premono da ogni parte, il rischio è che la con­fusione tolga il raccoglimento e trasmetta l’idea che quanto stiamo facendo sia semplicemente la partecipazione a un rito di socializzazione. L’avvi­cinamento alla mensa eucaristica dev’essere una processione ordinata. Non si tratta solo di arrivare a prendere qualcosa. Stiamo rispondendo alla chia­mata di Cristo, sapienza di Dio, che invita: “Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che ho prepa­rato” (Pr 9,5). Anche la processione fa parte della celebrazione e dev’essere fatta consapevolmente. Il ‘canto di comunione’ (partecipato) rende questo momento più ordinato, gioioso, comunitario.
Che la ricezione dell’ostia consacrata sia fat­ta con rispetto e dignità. Ricevere la comunione in mano è bellissimo, se questo gesto viene fatto correttamente; è banalizzante se il gesto diventa un ‘afferrare’ l’eucaristia e portarla goffamente al­la bocca. Bisogna che si insegni il modo corretto di accogliere l’eucaristia e si ripeta l’insegnamen­to fino a che questo non sia diventato comune e usuale. Non è cosa da poco. Posso fare bellissime riflessioni teologiche sull’eucaristia, ma se quando la si riceve lo si fa nel disordine e nella confusio­ne tutti i bei discorsi diventano inutili. Cosa può capire un ragazzo della comunione se si accosta con spintoni, cercando di precedere l’altro o riden­do e scherzando? Fino a che un’assemblea non ha imparato ad accostarsi bene alla comunione, vale la pena che ci siano due addetti che aiutino i co­municandi a mettersi in fila, a non sbucare da tut­te le parti, ad assumere l’atteggiamento richiesto da un procedere processionale. Non è questione di estetica; l’ordine serve perché l’attenzione sia diretta all’eucaristia (e non a chiedersi se tocca a me fare la comunione o a un altro).

23. L’adorazione eucaristica
  La promessa di Gesù: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20) si com­pie anche (e soprattutto) attraverso il segno sacra­mentale dell’eucaristia. Onorare questa forma di presenza, accoglierla con riconoscenza e amore, comprenderne la ricchezza, interiorizzarla e far­la diventare sorgente di pensieri, desideri e scel­te nuove: a questo tende l’adorazione eucaristica, una delle forme più significative di pietà eucaristi­ca che la tradizione della Chiesa ci consegna. Non è possibile cogliere la bellezza di un capolavoro con un’occhiata veloce; bisogna fermarsi a con­templarlo nel silenzio, lasciando salire dal cuore lo stupore e la gioia. È un’esigenza di questo genere che ha fatto nascere, nella vita della Chiesa, l’ado­razione eucaristica, le Quarantore, l’adorazione continua o notturna, l’ora di guardia... La fantasia dell’amore si è mostrata nella capacità di trovare forme sempre nuove per raggiungere un obiettivo considerato importante: l’assimilazione spirituale del mistero eucaristico.
Ma cosa significa ‘fare adorazione eucaristica’? Non basta stare davanti al Santissimo Sacramen­to e fare una forma qualsiasi di preghiera. Anche questo è cosa buona, s’intende: ma l’eucaristia ha una sua forma precisa e l’adorazione vuole coglie­re e fare propria questa ‘forma’. L’abbiamo detto sopra: nell’eucaristia ci sta davanti la vita intera di Gesù (parole, gesti, passione) nella forma del pane spezzato e cioè nella forma di esistenza do­nata per gli altri (qualcuno ha parlato di pro-esi­stenza; la parola è poco bella ma è molto signifi­cativa). Una ragazza ebrea, morta ad Auschwitz, ha scelto di vivere i suoi ultimi giorni nel campo di concentramento cercando di stare vicino alle persone, di consolare, di dare affetto e pazienza; nel suo diario ha descritto la sua decisione di vita così: “Ho spezzato il mio corpo come pane e l’ho dato alla gente perché ne mangiasse. Erano affa­mati, e da tanto tempo”(9). Ecco, l’adorazione euca­ristica è questo. Guardare con gli occhi del cuore il corpo di Cristo spezzato come pane per noi e la­sciar crescere in noi il desiderio di diventare pa­ne spezzato per gli altri. È facile da dire, e anche affascinante. Ma è terribilmente difficile da fare perché nasce l’impressione di essere ‘espropriati’ della propria vita; molti buoni desideri si spengo­no davanti al grigiore del quotidiano, alla aridità e alla mancanza di riconoscimenti. Per questo c’è bisogno dell’adorazione eucaristica: portare da­vanti al Signore tutte le nostre ribellioni, scioglie­re le nostre amarezze e i risentimenti per poter ripartire con il desiderio di donare, di esprimere col dono di noi stessi la riconoscenza per il dono immeritato che riceviamo dal Signore.


 24. La partecipazione dei fedeli e il canto
 Naturalmente l’obiettivo fondamentale è che l’as­semblea partecipi all’azione liturgica, che non ‘assi­sta’ solamente. Rispondere al celebrante, pregare e cantare insieme con gli altri, vivere con attenzione i momenti di silenzio, alzarsi in piedi o sedersi a se­conda dei momenti della celebrazione sono il mo­do concreto in cui la celebrazione è sentita come qualcosa che riguarda noi. Dal punto di vista edu­cativo il valore è straordinario. Ho vicino a me una persona ricca e ben vestita, una persona povera, un bambino, una mamma, un anziano…; se sto sempli­cemente ‘accanto’ a queste persone, il fatto non è particolarmente rilevante. Ma se canto con loro, pre­go con loro, scambio con loro un segno fraterno di pace, con loro mi alzo in piedi o mi metto a sedere, allora qualcosa cambia; la celebrazione mi educa a condividere, mi rende consapevole che al di là delle differenze di età o di condizione sociale siamo real­mente fratelli, abbiamo in comune le cose che con­sideriamo più preziose della nostra vita. Volete che questo sia senza effetti? Potrò trascurare un povero perché è povero o un anziano perché è anziano do­po che ho mescolato la mia voce con la loro, stando davanti a Dio nella preghiera? Se due persone guar­dano il medesimo spettacolo, il legame che si stabili­sce tra loro è fragile. Ma se due collaborano insieme nel compiere un’azione comune, tra loro si forma un legame forte; se poi questo avviene con regolarità, quel legame diventa robusto e infrangibile.
Anche per questo nella liturgia il canto ha enor­me importanza. Già il fatto di cantare stacca l’azione liturgica dalla banalità del quotidiano e ne esprime una dimensione essenziale di lode gioiosa, di ado­razione intensa. Per questo è bello che alcune parti della Messa vengano cantate: il Kyrie, il Gloria, il Sanctus, l’Amen alla dossologia del ‘Per Ipsum’, il Padre Nostro, l’Agnus Dei… Così è bello che altri momenti vengano accompagnati dalla musica e dal canto: l’ingresso, la presentazione delle offerte, la processione di comunione e il tempo dopo la comu­nione, il congedo. È preziosissima, per guidare i can­ti, una schola cantorum. L’unica avvertenza è che la schola non sostituisca l’assemblea ma la sostenga e la stimoli. L’evento dell’eucaristia è quello che si com­pie all’ambone e sull’altare; sarebbe un peccato se si percepisse come evento quello che la schola canta. Se invece la schola sostiene l’assemblea il risulta­to è che l’assemblea comprende e celebra meglio il mistero del Signore e questo è l’unico obiettivo che ci dobbiamo proporre. Va da sé, naturalmente, che i canti debbono essere scelti in rapporto al momento e al tipo di celebrazione per non diventare motivo ulteriore di distrazione (ce ne sono già abbastanza in ogni modo).

25. I ministeri legati all’eucaristia  
 In tutto quello che ho detto mi pare sia chiara la necessità della formazione di ‘ministeri’ per una celebrazione che esprima con chiarezza il mistero cristiano. Il ministero del diacono, anzitutto; ma poi l’accolito, il lettore, il cantore, il salmista… A me piacerebbe che ci fosse anche un ‘cerimoniere’ (un regista) che sappia coordinare con discrezione i mo­vimenti di tutti perché non ci siano intoppi. Lo scopo è quello che ho detto sopra: non una celebrazione ‘leccata’ (in questo caso la celebrazione sopravanza il mistero e attira su di sé tutta l’attenzione), ma una celebrazione corretta in tutte le sue parti, che fila via liscia, senza dare nell’occhio perché non ci sono erro­ri, incertezze, ritardi e così via. Sono molto contento dei numerosi gruppi di ‘piccolo clero’ che trovo gi­rando nelle parrocchie. E sono contento nel vedere che i chierichetti sono generalmente ben preparati e fanno il servizio con attenzione.
Ma non vorrei che il servizio all’altare fosse pen­sato come ‘servizio per i bambini’. È importante che ci siano anche degli adulti e che gli adulti guidino la celebrazione. Per questo bisogna organizzare a livel­lo di zone o di macrozone itinerari di preparazione ai diversi ministeri: una preparazione che sia ‘rituale’ nel senso che insegna azioni e movimenti; ma che sia soprattutto ‘liturgica’ nel senso che fa comprendere e amare il mistero che si celebra. Solo così la litur­gia non rischierà di diventare quel vuoto ritualismo che già i profeti hanno smascherato e considerato estraneo a un autentico rapporto con Dio.
 Una parola anche sui ‘ministri straordinari della comunione’ che mi sembra siano una straordinaria opportunità pastorale. Non tanto per la distribuzio­ne dell’eucaristia durante la Messa; a questa nor­malmente bastano i sacerdoti e i diaconi. Ma per portare la comunione a malati o anziani che non possono intervenire alla celebrazione. Portando loro la comunione, li rendiamo partecipi della vita della comunità in modo che non si sentano soli o abbandonati. E generalmente tra chi porta la comu­nione e chi la riceve si genera un legame di affetto e di solidarietà fondato sul sacramento, un legame preziosissimo per la formazione di un tessuto co­munitario solido.

26. Messa e Messe
 Credo sia evidente che una celebrazione dell’eu­caristia domenicale come quella che abbiamo deline­ato chiede un impegno non piccolo. Questa esigenza finisce facilmente per scontrarsi con la moltiplicazio­ne delle celebrazioni domenicali alla quale sembra non si riesca a porre un limite. Non ho dubbi: una Messa celebrata bene e partecipata suscita un impe­gno personale di preghiera e di vita; una Messa cele­brata male e ascoltata passivamente prepara solo un abbandono quando la forza dell’abitudine non riusci­rà più a contrastare la pigrizia, la noia, l’attrazione di esperienze diverse. Vale la pena tenerlo presente per affrontare correttamente il problema spinoso del numero delle Messe. Bisognerà rifletterci nelle Unità pastorali o nelle Zone pastorali per prendere decisioni insieme; non possiamo lasciare che la pa­storale del giorno del Signore si riduca a una corsa patetica tra una chiesa e l’altra per arrivare in tempo a tutti gli appuntamenti.
 Mi rendo conto che ci sarebbero molte altre co­se da dire; posso solo rimandare alle indicazione dell’Ordinamento Generale del Messale Romano; è un testo prezioso che dobbiamo conoscere, medi­tare, aver caro. Se ne comprendiamo lo spirito e lo mettiamo in pratica, una buona parte del nostro im­pegno pastorale è attuata.

III. EUCARISTIA E VITA

27. La Messa è finita?
 La celebrazione dell’eucaristia termina con un congedo: “La Messa è finita; andate in pace.” Ma è davvero un congedo? Qualcuno, un po’ origina­le, vorrebbe cambiare le parole e dire: “La Messa continua nella vostra vita; andate e vivete in pace con tutti.” La Messa continua, ma come? Usciamo di chiesa rinnovati, ma in che modo? Che cosa cambia la Messa nella nostra vita?
Anzitutto una premessa. La vera risposta a questa domanda l’abbiamo già data. Non si tratta, infatti, solo di chiederci: quali comportamenti ri­chiede da noi il fatto che abbiamo celebrato l’eu­caristia? La domanda giusta è: che tipo di uomo viene generato dalla celebrazione dell’eucaristia? È il Signore risorto che agisce nell’eucaristia; è il suo Spirito che ci viene trasmesso e che riordina dentro di noi pensieri, sentimenti, desideri, deci­sioni… Per questo ho insistito tanto sulla celebra­zione in se stessa; non per il desiderio di una pre­cisione rituale, ma per permettere all’eucaristia di operare in noi con il massimo di efficacia. E tut­tavia se usciamo dall’eucaristia rinnovati, questo cambiamento dovrà pure esprimersi in comporta­menti concreti; quali? Come possiamo descrivere la novità eucaristica?
L’eucaristia ci edifica come corpo vero di Cri­sto; dunque dalla partecipazione all’eucaristia debbono nascere in noi i pensieri e i desideri di Cristo. Penso a Paolo che scrive ai Corinzi: “Voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte” (1Cor 12,27). Oppure: “Noi abbiamo il pensiero di Cristo” (1Cor 2,16). Oppure ancora: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Nella misura in cui sappiamo chi è Ge­sù Cristo, sappiamo anche quale tipo di compor­tamento manifesti l’azione di Cristo nella nostra vita. Potremmo fermarci qui perché una risposta completa richiederebbe di esporre tutta l’etica cri­stiana come manifestazione della ‘forma di Cristo’. Ma forse qualcuno rimarrebbe deluso e avrebbe l’impressione di un discorso lasciato in sospeso. Per questo provo ad aggiungere qualche parola che serva a stimolare una riflessione ulteriore.
 
28. La forza di amare
 L’eucaristia ci dona Cristo nel segno del pane spezzato e del vino versato per diventare nostro cibo e bevanda; quindi la vita che nasce dall’euca­ristia è quella che si presenta come vita ‘spezzata’ per diventare dono nell’amore che genera e fa vi­vere. L’uomo vive necessariamente in società (è un ‘animale politico’, diceva Aristotele) e questa sua condizione produce inevitabilmente delle tensioni; da una parte egli è portato a difendere, arricchire, ‘realizzare’ la sua esistenza personale; dall’altra deve accettare e irrobustire i legami sociali che lo uniscono agli altri all’interno di istituzioni, progetti sociali, rapporti economici, ordinamenti giuridici. Se i due obiettivi potessero convivere facilmente, non ci sarebbero problemi; potremmo amare noi stessi senza che questo ci impedisca di voler bene agli altri; potremmo amare gli altri senza che que­sto ci chieda il sacrificio di noi stessi. Ma le cose non stanno così; quotidianamente ci accorgiamo che l’equilibrio tra l’amore di noi stessi (che è un amore buono e, in una certa misura, doveroso) e l’amore verso gli altri entrano spesso in conflitto tra di loro e questo conflitto ci procura sofferen­za. Non posso non amare gli altri, perché so bene che il mio stesso benessere dipende da loro; ma nello stesso tempo non riesco ad amarli senza con­dizioni perché ho paura di perdere me stesso e di rimanere deluso.
Solo se contadino e mugnaio e fornaio fanno bene il loro lavoro posso godere del pane buono sulla mia tavola. Sono quindi costretto a voler be­ne a contadino e fornaio se voglio mangiare un pa­ne buono; senza di loro la mia vita sarebbe inevi­tabilmente più misera. Volentieri pagherò loro un prezzo giusto perché anch’essi possano vivere e quindi lavorare e quindi farmi arrivare il pane. Ma cercherò anche di non pagare un prezzo troppo al­to perché in questo caso loro vivrebbero meglio, ma sarebbe la mia vita che ne uscirebbe mortifica­ta. L’equilibrio tra l’amore per me stesso (desidero vivere al meglio la mia esistenza) e l’amore per gli altri (desidero che gli altri vivano al meglio la loro esistenza) sarà difficile da trovare. Per di più, non sarà mai trovato una volta per tutte. Cambiando le circostanze possono cambiare le esigenze: una stagione di siccità diminuirà il prodotto della terra e il contadino dovrà alzare il prezzo per poter vi­vere con una quantità minore di grano da vendere; mugnaio e fornaio dovranno anch’essi rivedere i prezzi per sopravvivere e io dovrò forse dedicare all’acquisto del pane una parte maggiore del mio patrimonio. Questo mi costringerà a rivedere la mia scala di valori; a chiedermi che cosa consi­dero importante e irrinunciabile, che cosa invece secondario e, almeno in certe circostanze, rinun­ciabile. È chiaro che in queste scelte è coinvolta l’immagine che mi faccio dell’uomo (e quindi di me stesso). Se considero l’uomo semplicemente come un animale un po’ più evoluto, sarò portato a mettere al primo posto le esigenze ‘animali’ (ci­bo, bevanda, sesso, sensazioni gradevoli); se so­no convinto che l’uomo sia più di questo, dovrò considerare alcune esigenze culturali o religiose come essenziali, a volte primarie; questo mi spin­gerà ad accettare un livello di benessere materia­le meno elevato a condizione che sia garantita la realizzazione delle esigenze spirituali. La preghie­ra, ad esempio, richiede di impiegare una certa ampiezza di tempo in un’attività che appare eco­nomicamente sterile. E siccome time is money, questo significa una minore ricchezza economica.
Se però sono convinto che l’uomo “è fatto per Dio e che non può essere tranquillo finché non ripo­sa in Dio” il tempo speso per la preghiera diven­ta fecondo: una ‘perdita di tempo’ economico si configura come ‘guadagno’ spirituale e il bilancio complessivo risulta positivo.

29. L’eucaristia, fonte del dono
 Come entra l’eucaristia in tutto questo immen­so sistema dell’esistenza umana? Entra perché l’eucaristia pone il dono di sé (pane spezzato e of­ferto) come suprema realizzazione della persona umana e quindi induce a costruire e custodire una precisa, caratteristica scala di valori; a sua volta la scala di valori determina le scelte concrete e i concreti comportamenti. Ci sono nell’esistenza dell’uomo dimensioni diverse: l’avere, l’essere, il donare. Sono necessarie tutte e tre; se l’uomo non ha nulla, non può donare nulla e rischia di non essere nulla; se non esiste una persona integrata e salda nella sua identità, ciò che questa perso­na possiede (l’avere) non ha una valenza precisa e diventa una forza anarchica che può produrre del bene o del male, può servire l’amore o l’odio.  
Avere ed essere sono entrambi necessari. Ma se l’eucaristia è quello che abbiamo detto, il valore supremo è quello del donare. “C’è più gioia nel da­re che nel ricevere” ha detto Gesù (At 20,35).

30. Eucaristia e vita affettiva
 Non c’è dubbio che l’amore di sé stia all’origine dell’esistenza umana stessa; ma è altrettanto chiaro che questo ‘amore di sé’ diventa umanamente matu­ro quando si apre al riconoscimento cordiale dell’al­tro, supera l’egoismo meschino e controlla le paure istintive. Su questa linea l’eucaristia provoca ad an­dare oltre, spinge a “portare gli uni i pesi degli altri” (cfr Gal 6,2), a “non cercare solo il proprio interes­se ma anche quello degli altri” (cfr Fil 2,4). Quando un uomo e una donna nel matrimonio si scambia­no l’impegno del loro amore e della loro fedeltà per sempre, mettono in gioco se stessi, l’uno per la vita dell’altro. Solo a questo punto i sentimenti di affet­to e l’esultanza dell’amore raggiungono la loro pie­na maturità nel dono reciproco. La condivisione dei beni materiali, il dialogo interpersonale continuo, la comunione sessuale, tutto assume i lineamenti del dono (cioè lineamenti eucaristici).
Ancora. Generare significa dare alla vita qualcu­no ‘a nostra immagine e somiglianza’, qualcuno nel quale il nostro ‘avere’ cresce e il nostro ‘essere’ trova conferma. Ma i figli non sono quello che i genitori si aspettano da loro, non realizzano i loro programmi. Maturità è imparare a rinunciare ai propri sogni per accompagnare e sostenere i figli nel loro cammino creativo, secondo la loro vocazione propria. Quan­do avviene questo passaggio, i figli non sono più so­lo un patrimonio che abbiamo (avere) e nemmeno solo un prolungamento e arricchimento della nostra persona (essere); diventano soggetti autonomi ai quali doniamo con generosità quello che noi siamo riusciti ad essere e ad avere. Anche così si compie la dimensione eucaristica della vita.

31. Eucaristia e vita sociale
 Viviamo inseriti in un sistema politico che rico­nosce a tutti una serie di diritti fondamentali e ga­rantisce che il gioco della vita sociale sia condotto secondo leggi giuste che tutelino la libertà di ciascu­no. Che cosa sarebbe la vita sociale se non ci fosse un sistema di leggi e di istituzioni che le applicano è addirittura impensabile. Tutti noi accettiamo i vincoli che il sistema politico ci impone spinti dal bisogno di difendere noi stessi, di essere garantiti e protetti da chi è più forte di noi e potrebbe rive­larsi nostro avversario.
Ma dobbiamo imparare ad abitare il sistema poli­tico cercando con lo stesso desiderio anche la di­fesa dei diritti degli altri. L’educazione civica fa di noi dei cittadini autentici, che conoscono il valore della legalità e la rispettano non solo per evitare una punizione, ma per un riconoscimento di valo­re interiorizzato; siamo nella linea di una crescita umana (la linea dell’essere), Ma può accadere, a volte, che dovremo rinunciare a qualche nostro di­ritto acquisito (come si dice) per lasciare che altri entrino nell’area della fruizione dei diritti. Quando questo avviene, allora anche la nostra cittadinan­za è orientata nella direzione del dono; diventa eu­caristica.

32. Eucaristia, lavoro e festa
  La nostra vita è fatta di ritmi, cioè di momenti diversi che si sostengono e si completano a vicen­da. Lavoriamo sei giorni e riposiamo il settimo. Esi­ste una concezione della festa del tutto funzionale al lavoro: il riposo – si dice – serve per riacquistare le forze da spendere nel lavoro futuro. Questa con­cezione, rivolta chiaramente a sviluppare l’avere, può essere arricchita nella dimensione dell’essere. Riposare diventa allora prendere coscienza del fat­to che non sono una ‘macchina da lavoro’ e che ci sono valori trascendenti rispetto all’avere: la cultu­ra, l’arte, la contemplazione, la preghiera, lo stupore stesso di esistere. La festa accresce la dimensione dell’essere e permette di prendere coscienza della propria dignità. Anzi, questo dinamismo può aprirsi fino alla realizzazione della vita come dono: l’uomo riconosce di aver ricevuto ogni cosa e risponde con­segnando a Dio tutto se stesso e donandosi agli al­tri: “Da questo abbiamo conosciuto l’amore: Egli ha dato la sua vita per noi. Quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli.” Quando questo avviene, il ritmo ‘lavoro-festa’ diventa eucaristico.

33. Eucaristia e fragilità umana
 Ultimo esempio. L’uomo sperimenta nella sua vita la forza e la debolezza, la realizzazione gioio­sa e il limite o il fallimento doloroso. Non è faci­le accettare il fallimento dei propri sogni e il ridi­mensionamento dei propri obiettivi ma è cammino necessario per una crescita autentica. Avere tutto può sembrare gradevole; ma è condizione diffici­lissima da gestire. Chi possiede tutto rischia facil­mente di diventare ‘viziato’ e di non comprendere il valore delle cose; non sente bisogno degli altri e si chiude in una fruizione solitaria dei suoi be­ni. L’esperienza dolorosa della fragilità aiuta an­zitutto ad apprezzare quello che abbiamo (linea dell’avere); poi a crescere come persone mature che accettano serenamente di avere doti e limiti (linea dell’essere); infine a farsi carico della fragi­lità degli altri e a donare loro quello che siamo e abbiamo perché gli altri vivano meglio (linea del dono). Quando questo avviene, l’eucaristia ha tra­sformato dall’interno l’esperienza della fragilità e l’ha resa feconda, appunto eucaristica.

34. Per un’esistenza armonica
 Insomma, avere, essere e donare si sostengo­no a vicenda nell’esistenza complessa dell’uomo; c’è bisogno di tutte e tre queste dimensioni. Non si può disprezzare l’avere perché significherebbe pre­tendere di essere angeli, non uomini; non si può ri­nunciare ad ‘essere’ perché significherebbe ridurre indebitamente l’uomo alla sua dimensione animale. E infine bisogna aprirci al ‘donare’ perché solo co­sì il dinamismo della coscienza umana raggiunge il suo compimento in una trascendenza reale e, nello stesso tempo, pienamente umana. Il vero problema è l’articolazione di queste tre dimensioni in modo armonico: l’avere in funzione dell’essere e quindi della crescita personale; l’essere in vista del dono e quindi della fecondità della vita. Percorrendo que­sto itinerario l’uomo cammina verso una sempre più piena somiglianza con Dio. L’essere divino – secon­do la rivelazione della Trinità – consiste esattamen­te nel dono di sé; quando l’uomo si avvicina a que­sto traguardo introduce nella sua esistenza alcuni lineamenti che lo conformano a Dio stesso.
Le cose che ho detto sono solo esempi. Tutte le dimensioni dell’esistenza umana possono essere affrontate e illuminate da questa tensione tra ave­re, essere e donare. Si tratta, infatti, di concepire la maturazione dell’uomo nella sua pienezza: dal pos­sesso, all’autocoscienza, al dono di sé. È un proces­so che coinvolge la nostra libertà ma che ha la sua origine nell’amore di Dio creatore, nella grazia di Cristo, nella forza dello Spirito Santo. Se dal basso ci spinge un impulso a crescere, dall’alto ci attira una grazia ad amare: nell’uno e nell’altro movimen­to è all’opera Dio stesso, origine e fine di tutto ciò che esiste.

CONCLUSIONE
 Figli e fratelli carissimi in Cristo, l’autore degli Atti degli Apostoli ci ricorda che i membri della prima comunità cristiana “erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione frater­na, nella frazione del pane e nelle preghiere” (At 2,42). Sono questi i quattro pilastri che, insieme, sostengono la vita cristiana dei singoli e delle co­munità. Pertanto, dopo aver richiamato, lo scor­so anno, la vostra attenzione sull’importanza del­la parola di Dio, ho desiderato invitare la diocesi a soffermarsi quest’anno sullo “spezzare il pane”, cioè sulla centralità essenziale dell’eucaristia nel­la vita delle comunità cristiane. Non si tratta di due realtà distinte e separate. È la stessa parola di Dio, cioè Gesù Cristo, che, dopo essere stata ac­colta nella predicazione, esige di essere celebrata e vissuta, perché l’amore di Dio sia perfetto in noi. Al termine di questa lettera sull’eucaristia, invito tutti a pregare in modo particolare per i presbite­ri, in comunione col papa Benedetto XVI, che ha indetto per il 2009-2010 l’Anno sacerdotale. Con l’eucaristia i presbiteri hanno una relazione tut­ta particolare, non solo perché “rappresentano” - cioè rendono presente - il Cristo che convoca il suo popolo, dialoga con lui e per lui si sacrifica, ma anche perché il loro ministero ha come scopo ultimo di portare all’incontro con Cristo, alla co­munione con Lui nell’eucaristia. Spesso dal modo con cui i presbiteri celebrano la Messa dipende in maniera non indifferente anche il tipo di parteci­pazione dei fedeli.
Invochiamo l’intercessione di Maria, la Madre del sommo ed eterno sacerdote, perché l’eucaristia diventi veramente per tutti culmen et fons (cul­mine e fonte) della vita cristiana.

Brescia, 4 luglio 2009
Solennità della Dedicazione della Cattedrale

+ Luciano Monari,Vescovo

 

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