Pasci i miei agnelli Stampa
Scritto da Don Raffaele   

S.S. Benedetto XVI in visita a Brescia 8 Novembre 2009
Pasci i miei agnelli: il ministero del Papa

La vocazione di Simone Pietro

 La visita del Papa Benedetto XVI a Brescia ci procura una grande emozione anche perché ci conduce nel cuore della Chiesa delle origini.
Siamo posti nella condizione di ripensare il grande progetto d’amore di Cristo sull’umanità, di diventare contemporanei della sua passione per la salvezza delle persone umane e del mondo intero.
 Gesù incontra Simone, Andrea, Filippo e li chiama ad essere suoi discepoli, a stare con Lui, a condividere la sua vita (“Venite e vedrete”): è la Chiesa in embrione.
 L’incontro con Simone è particolare: rivela la dimensione profetica del progetto d’amore di Gesù. Appena lo ha di fronte a sé, lo sguardo del Maestro vede lontano:gli si disvela la roccia sulla quale poggerà il grande edificio destinato a riunire l’umanità nel popolo di Dio. Ecco Simone. È luila roccia.
 Subito Gesù gli cambia nome per indicargli la futura missione: «Gesù lo guardò e disse: “Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; tu sarai chiamato Cefa (che si traduce ‘Pietro’)”» (Gv 1,42). Non importa se Simone immediatamente non capisce. La parola di Gesù è potente. È la parola del Creatore che edifica
non sulla sabbia, ma sulla roccia. Le pietre della costruzione, in questo caso, sono vive, sono persone umane.
 Gesù si rivela utilizzando anche altre immagini. Ha chiamato a sé dei pescatori? Ebbene, valorizzerà pienamente la loro professione: quegli uomini continueranno a pescare, ma non più pesci. Nella nuova ‘rete’ del Regno dei Cieli e della Salvezza entreranno le persone umane. Così la barca, veicolo tanto familiare, diviene il segno dell’unità dei figli di Dio prima dispersi.
 Gesù ha trovato la roccia sulla quale fondare la Chiesa. E il nostro cuore vibra per l’attesa e la meraviglia proprio ricordando l’origine di quel nome, Pietro, dato a Simone un giorno nei pressi di Cesarea di Filippo. Il Padre celeste e Gesù preparano nel cuore e nella bocca di Simone una splendida professione di fede: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente », a cui Gesù risponde: «Tu sei beato, Simone, figlio di Giona, perché non la carne e il sangue ti hanno rivelato questo, ma il Padre mio che è nei cieli. E anch’io ti dico: tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa, e le porte dell’Ades non la potranno vincere» (Mt 16, 16-19). Ora l’orizzonte è meglio definito: Simone è la pietra che Gesù pone a fondamento; ecco la nuova costruzione, che ricorda le case degli uomini; un edificio unitario, sintesi di tante pietre connesse, destinato a raccogliere in unità le persone. Il Padre stesso conduce Simone a professare una fede che supera le capacità umane; Gesù riconosce la presenza attiva del Padre e si incammina decisamente sulla strada che lo porterà alla Croce.  
 Il Signore guarda il suo popolo, il suo gregge per il quale il Pastore si prepara a dare la vita. A tanto arriva l’amore del Pastore.
Alcune pecore sono già radunate al sicuro nell’ovile, altre sono disperse; per queste prega, perché il gregge si ricomponga e si ricongiunga, in unità con il suo Pastore. È la preghiera appassionata dell’Ultima Cena: «Non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola: che siano tutti uno; e come tu, o Padre, sei in me e io sono in te, anch’essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17, 20-21 ). Questa preghiera ci riguarda direttamente, perché anche noi abbiamo creduto per la parola degli Apostoli; è quasi un testamento; sembra pronunciato “oggi”; implora l’unità dei credenti.
 Quanta passione ha il Signore per la sua Chiesa! La vuole unita, capace di accogliere tutte le stirpi e le culture della terra. Alla vigilia della Croce, con uno sguardo che abbraccia tutto il genere umano, annuncia: «e io, quando sarò innalzato dalla terra, attirerò tutti a me» (Gv 12, 32). Il mandato del Pastore si compie. Il gregge è riunito e al sicuro.Pecore ed agnelli sono salvati a prezzo del suo sangue.
 Quando tutto è compiuto, Gesù promette agli uomini il “Paraclito”: «e io pregherò il Padre, ed Egli vi darà un altro Paraclito, perché stia con voi per sempre, lo Spirito della verità [...], vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto quello che vi ho detto» (Gv 14, 16-17, 26). E ancora: «Ma quando sarà venuto il Paraclito che io vi manderò da parte del Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli testimonierà di me; e anche voi mi renderete testimonianza, perché siete stati con me fin dal principio» (Gv 15, 26-27). Dunque Spirito Santo e Apostoli uniti nella testimonianza a Cristo. Ecco il cuore della Chiesa. L’azione dello Spirito Santo illumina i discepoli e coloro che crederanno in Gesù per la loro parola; non ci sono limiti di tempo o di luoghi.
La Chiesa è affidata allo Spirito Santo; il tempo della Chiesa è il tempo di Gesù e dello Spirito.
 Nell’Ultima Cena il Signore affida a Pietro un particolare mandato: «Simone, Simone, ecco, Satana ha chiesto di vagliarvi come si vaglia il grano; ma io ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno; e tu, quando sarai convertito, fortifica i tuoi fratelli» (Lc 22, 31-32). La fede di Simone è salvaguardata e confermata da questa stessa preghiera. Ora può adempiere al comando di “fortificare” i fratelli. Un mandato per Simone, per Pietro, la roccia, il fondamento; un mandato che attraverserà tutto il tempo della Chiesa, inscritto in un orizzonte senza limiti.«Anch’io ti dico: tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa, e le porte dell’Ades non la potranno vincere. Io ti darò le chiavi del regno dei cieli; tutto ciò che legherai in terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai in terra sarà sciolto nei cieli» (Mt 16, 18). Le forze della morte, del male, non potranno mai vincere la Chiesa.
 Questo non grazie alle forze umane, ma per la parola e la grazia del Signore. L’esito finale della lotta (la lotta tra la Chiesa e le potenze del male) è assicurato da Gesù stesso e dall’azione dello Spirito Santo.
La Chiesa, dunque, non verrà meno e insieme anche la roccia su cui la Chiesa è edificata.
 Il mandato si definisce ulteriormente dopo la Risurrezione del Signore. L’episodio è narrato nell’ultimo capitolo del Vangelo di Giovanni. Gesù appare in riva al lago: Gesù, pastore buono, chiama come aiutante lo stesso Pietro; non sviluppa più l’immagine della pietra sulla quale insiste il suo edificio, ma l’immagine del gregge, delle pecore e degli agnelli. Centrale e illuminante è il dialogo personale di Gesù con Pietro stesso: «Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?». Tre volte ripete la domanda. Perché chiedere a Pietro per tre volte un amore grande? Non solo per offrirgli di riparare la triplice negazione nel cortile dei sommi sacerdoti, ma per conferirgli un mandato universale quanto alle persone e quanto al tempo: «Pasci i miei agnelli, pastura le mie pecore». È il momento decisivo. Il gregge è affidato a Pietro perché lo conduca al riparo. Questo per incarico del Pastore supremo
(cfr. Gv 21, 15-19).

Pietro vescovo di Roma

 La tradizione unanime afferma che Pietro è venuto a Roma e qui ha esercitato il suo ministero apostolico; è stato quindi il primo vescovo di Roma. Secondo un disegno misterioso, la Provvidenza è andata quasi predisponendo i popoli affacciati sul Mediterraneo, e in particolare la città di Roma, ad accogliere il Vangelo. Roma in particolare è stata chiamata ad essere il luogo della cattedra di Pietro, cuore dell’unità del popolo di Dio.
 La stessa Provvidenza ha disposto che Pietro concluda il suo cammino, al seguito di Gesù, proprio nella città eletta a sede del suo apostolato.
Come Gesù, il buon pastore, anche Pietro dona la vita per il suo gregge, i suoi agnelli. Così Paolo, l’Apostolo delle genti, nella capitale dell’impero offre al Vangelo la testimonianza suprema del martirio. La Chiesa di Roma diventa la Chiesa di Pietro e di Paolo.

La successione apostolica

 Le Lettere Pastorali pervenuteci sono la testimonianza della prassi naturale, nella Chiesa delle origini, di nominare vescovi o presbiteri nelle singole comunità; gradualmente da un collegio emerge la figura di un solo ‘sorvegliante’ (è questo il significato del termine ‘vescovo’; vi emergono anche indicazioni interessanti sulle qualità richieste ad un vescovo e ai suoi collaboratori. È naturale, quindi, che lo stesso Pietro abbia avuto un successore nella comunità romana. Si è sviluppata così la consapevolezza che nella Chiesa di Roma si perpetua il ministero di Pietro e il vescovo di Roma è il fondamento visibile dell’unità delle varie Chiese, secondo quanto annunciato da Gesù con le immaginidella roccia e del pastore del gregge. Il vescovo di Roma è quindi erede e successore del ministero di Pietro. Negli Atti degli Apostoli Luca, come in genere già i racconti evangelici, ci presenta Pietro come capo e portavoce del collegio apostolico. È Pietro che prende l’iniziativa per riempire il vuoto lasciato dal tradimento e dal suicidio di Giuda. A Pentecoste è ancora Pietro che pronuncia i primi e principali discorsi per annunciare la Risurrezione del Signore e invitare alla conversione e al Battesimo.
 Il racconto sembra attribuire a Pietro una particolare investitura operata dallo Spirito Santo, che a Pentecoste designa Pietro come primo responsabile dell’evangelizzazione.
 Gesù aveva annunciato: «Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme», e Pietro mostra per primo, con Giovanni, il coraggio di testimoniare il Cristo davanti a un Sinedrio, deciso a stroncare la “nuova superstizione”; Pietro, che timoroso aveva rinnegato Gesù davanti a semplici servi, proclama ora senza paura: «Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato». Per la prima volta la testimonianza cristiana prosegue il suo cammino sospinta dalla forza dello Spirito Santo e dalla franchezza degli Apostoli: ubbidiscono a Dio piuttosto che agli uomini.

Per un ministero di misericordia

 È singolare che Gesù non risparmi a Pietro la verità sulla sua debolezza. A Cesarea, subito dopo avergli annunciato l’intenzione di fondare su di lui-pietra la sua Chiesa, gli rimprovera di essere in quel momento un satana, un inciampo. Gesù parla apertamente della sua passione, morte e risurrezione, ma Pietro non capisce: questo destino contrasta con le attese della gente, dei suoi amici, di Pietro stesso. Allora prende in disparte il Signore e quasi lo consiglia di cambiare il proprio destino, di intraprendere una nuova strada. Il Signore lo rimprovera: «Vattene via da me, Satana! Tu mi sei di scandalo. Tu non hai il senso delle cose di Dio, ma delle cose degli uomini» (Mt 16, 22-23). Tuttavia Gesù non ritira alcuna delle promesse fatte. Pietro resta la roccia. Sembra invece farsi più chiaro, in Pietro, il piano della debolezza umana e della potenza di Dio.
 Anche quando Gesù raccomanda a Pietro di “confermare” i fratelli, è la fragilità che si evidenzia: lo rinnegherà tre volte. Il compito di “confermare” i fratelli diventerà possibile dopo il ravvedimento. Il Signore pone dunque Pietro di fronte alla coscienza della sua debolezza e alla necessità della conversione. È questa la condizione necessaria perché possa adempiere al mandato. Sembra cioè che il particolare ministero di Pietro debba svolgersi dentro questa consapevolezza e in tale consapevolezza si manifesti pienamente e totalmente la grazia di Dio.
 La dialettica tra fragilità e grazia appare drammaticamente nelle ore della Passione. Pietro rinnega tre volte il Maestro; il canto del gallo lo riconduce alla realtà e alle parole profetiche di Gesù stesso. Uscito dal cortile, Pietro piange amaramente.
Nell’apparizione di Gesù sulle rive del lago, si trova poi un altro delicato quanto chiaro richiamo alla debolezza di Pietro; è in tale contesto - come si è accennato - che gli viene conferito il mandato di pascere pecore ed agnelli del Risorto. Dopo la triplice negazione, Gesù risorto chiede a Pietro una triplice dichiarazione di amore e per tre volte gli affida la missione di pastore.
 Il tema della fragilità dell’uomo messo di fronte alla potenza di Dio, si ritrova anche in Paolo: «ed egli mi ha detto: “La mia grazia ti basta, perché la mia potenza si dimostra perfetta nella debolezza”. Perciò molto volentieri mi vanterò piuttosto delle mie debolezze, affinché la potenza di Cristo riposi su di me. Per questo mi compiaccio in debolezze, in ingiurie, in necessità, in persecuzioni, in angustie per amor di Cristo; perché, quando sono debole, allora sono forte» (2Cor 12, 9-10), attesta l’Apostolo.
 Nella chiamata di Pietro e Paolo sembra delineata una caratteristica fondamentale della esperienza cristiana. Erede della missione di Pietro, il vescovo di Roma esercita un ministero che ha la sua origine e la sua sorgente nella misericordia di Dio; la forza della grazia riempie di fiducia e gioia i cuori che hanno riconosciuto la propria debolezza e miseria.
 Dobbiamo concludere che l’autorità propria del ministero petrino consiste nel servizio al disegno misericordioso di Dio; da qui trae la sua potestà.
 Per questo Gesù risorto nella prima apparizione ai discepoli concede il dono dello Spirito Santo e affida il potere di perdonare i peccati: «Detto questo, soffiò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo. A chi perdonerete i peccati, saranno perdonati; a chi li riterrete, saranno ritenuti”» (Gv 20, 22-23).
 Il successore di Pietro è segno e strumento di misericordia. In questa luce va letto e considerato il ministero. Dio chiama incessantemente gli uomini all’unione con lui; li allontana dalla vergogna del peccato e della disobbedienza alla sua volontà, nella quale è la nostra pace, li guida alla vita nuova. Il vescovo di Roma ripete al mondo l’annuncio e il programma di Cristo: «Convertitevi e credete al Vangelo» (Mc 1,15). Il ministero della misericordia nasce dall’esperienza personale della medesima misericordia; in questo si manifesta la gloria di Dio.

L’esercizio dell’autorità

 L’autorità del vescovo di Roma ha altro fondamento e dovrebbe essere vissuta in modo diverso rispetto all’autorità propria dei capi delle nazioni; ciò che Gesù annuncia deve essere vissuto anzitutto da colui che è posto a servizio dell’unità della Chiesa: «Gesù, chiamatili a sé, disse: “Voi sapete che i prìncipi delle nazioni le signoreggiano e che i grandi le sottomettono al loro dominio.
 Ma non è così tra di voi: anzi, chiunque vorrà essere grande tra di voi, sarà vostro servitore; e chiunque tra di voi vorrà essere primo, sarà vostro servo; appunto come il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito ma per servire e per dare la sua vita
come prezzo di riscatto per molti”» (Mt 20,25-28). Il Papa deve essere dunque “primo” nel favorire l’unità del gregge; deve essere, riferimento sicuro per tutte le genti che cercano il Signore; per questo si impegna ad attuare il mandato enunciato sinteticamente da papa Gregorio Magno: essere servusservorum Dei.

Pietro nel collegio apostolico 

 Il ministero affidato a Pietro dev’essere considerato all’interno del gruppo degli Apostoli.
Gesù sceglie alcuni discepoli e, dopo una notte di preghiera, ne elegge dodici, che chiama apostoli, cioè “inviati” a portare il suo Vangelo fino alle estremità della terra.
 Il numero dodici ha valore simbolico, profetico, programmatico poiché dodici erano i figli di Giacobbe e dodici le tribù d’Israele, tanto che Pietro si sente in dovere di completare il numero rimasto incompleto per la defezione di Giuda e sceglie un discepolo che ha conosciuto il Signore «cominciando dal Battesimo di Giovanni»; la scelta cade su Mattia.
 La funzione del vescovo di Roma non è staccata dalla missione affidata all’insieme dei vescovi successori degli Apostoli. Gesù ha voluto e istituito il collegio degli Apostoli e dei loro successori, come un collegio unito; i vescovi sono dunque vicari di Cristo. Il vescovo di Roma appartiene a tale collegio e i vescovi sono i suoi fratelli nel ministero.
Come Pietro agisce all’inizio della Chiesa quale portavoce dei Dodici e parla a nome del collegio, della cui esistenza è principio, così è il vescovo di Roma, che in tal modo si pone a servizio dell’unità della Chiesa.

Il primato del Papa

 Il ministero del vescovo di Roma ha tuttavia le caratteristiche di un primato, anzitutto nel servizio all’unità della Chiesa. C’è nel nome stesso - Papa - il seme di questo ministero speciale.
 Un nome che - pur non essendo esclusivo della Chiesa romana, dato che esiste anche nella Chiesa ortodossa, dov’è attribuito anche ai vescovi - evoca la paternità, il particolare rapporto nella fede che si instaura tra vescovo e fedele.
 La Chiesa particolare, la diocesi, nella tradizione si sviluppa come una famiglia, con un padre e numerosi figli che tra loro devono vivere quali fratelli in attesa della salvezza.
 E nel collegio dei vescovi ecco il “padre” che costituisce principio di unità tra le varie comunità ecclesiali sparse sulla terra.
 Questa unità Cristo l’ha affidata a Pietro e dopo di Lui al suo successore; per questo ha il titolo di Papa, padre di tutti i vescovi e di tutte le comunità ecclesiali.
 La comunione di tutte le Chiese particolari con la Chiesa di Roma, la Chiesa del successore di Pietro, è dunque condizione necessaria per l’unità della Chiesa di Cristo.
 È questo un requisito essenziale perché si realizzi la comunione per la quale Cristo ha pregato in occasione dell’Ultima Cena e per la quale ha donato la vita: «che siano tutti uno; e come tu, o Padre, sei in me e io sono in te, anch’essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17, 21).
 Paolo VI nella Evangelii Nuntiandi ricorda che «la sorte dell’evangelizzazione è certamente legata alla testimonianza di unità della Chiesa... A questo punto vogliamo sottolineare il segno dell’unità tra tutti i cristani come via e strumento di evangelizzazione.
La divisione dei cristiani è un grave stato di fatto che perviene ad intaccare la stessa opera di Cristo». Aggiunge Giovanni Paolo II: «Come annunciare il Vangelo nella riconciliazione, senza al contempo impegnarsi per la riconciliazione dei cristiani?... Messi di fronte a missionari in disaccordo tra loro, sebbene essi si richiamino tutti a Cristo, sapranno
gli increduli accogliere il vero messaggio?» (Ut unum sint, 98).

La Chiesa cattolica e l’impegno per l’unità e la piena comunione

 L’ecumenismo indica tutte le attività intese a procurare ai cristiani l’unità che Cristo ha voluto per la sua Chiesa.
 Con il Concilio Ecumenico Vaticano II la Chiesa cattolica si è impegnata in modo irreversibile a percorrere la strada della ricerca ecumenica. Non può essere altrimenti, perché essa racchiude in sé il mistero della comunione di Dio con il genere umano; è suo compito raccogliere tutti e tutto in Cristo; essere per tutti sacramento di unità.
 Tuttavia il ministero a servizio dell’unità esercitato dal Papa è diventato da un millennio un inciampo all’unità stessa e quindi un motivo di grande sofferenza per chi condivide la passione di Cristo. L’unità che vive la Chiesa cattolica costituisce, ad esempio, una difficoltà per la maggior parte degli altri cristiani. Il Papa riconosce che questo è dovuto a ricordi dolorosi, a sofferenze subite da cristiani anche da parte di cattolici: «Per quello che ne siamo responsabili, con il mio predecessore Paolo VI, imploro il perdono».
 E Giovanni Paolo II nell’Enciclica Ut unum sint si esponeva a chiedere anche ai cristiani delle altre Chiese suggerimenti circa il modo di esercitare il ministero dell’unità.

L’impegno ecumenico nel mondo e Chiesa cattolica

 «Il Signore dei secoli, che con sapienza e pazienza persegue il disegno della sua grazia verso di noi peccatori, in questi ultimi tempi ha incominciato a effondere con maggior abbondanza nei cristiani tra loro separati l’interiore ravvedimento e il desiderio dell’unione. Moltissimi uomini in ogni parte del mondo sono stati toccati da questa grazia, e anche tra i nostri fratelli separati è sorto, per impulso della grazia dello Spirito Santo, un movimento ogni giorno più ampio per il ristabilimento dell’unità di tutti i cristiani. A questo movimento... partecipano... non solo singole persone separatamente, ma anche riunite in gruppi... Quasi tutti... aspirano alla chiesa di Dio una, visibile, che sia veramente universale e mandata a tutto il mondo, perché il mondo si converta al Vangelo e così si salvi per la gloria di Dio» (Unitatis redintegratio, l).
 Fine del movimento ecumenico è ristabilire la piena unità visibile di tutti i battezzati. Il cammino verso questa meta esige un lavoro paziente e coraggioso. Nel far ciò bisogna trovare pochi punti qualificanti, essenziali e comuni.
 La maggior parte dei fratelli separati ha dato la sua adesione al Consiglio Ecumenico delle Chiese che ha sede a Ginevra. Vi sono accolte circa 350 comunità ecclesiali sparse in tutto il mondo. Requisito indispensabile per esserne partecipi è la professione di fede nella Trinità e in Gesù Cristo Signore e Salvatore.
 La Chiesa cattolica non è membro a pieno titolo di questo Consiglio; tuttavia Paolo VI e Giovanni Paolo II vi hanno fatto visita e vi hanno recato incoraggiamento e sostegno.
 I cattolici sono tuttavia presenti con propri osservatori.
 Anche singole diocesi intrattengono contatti di dialogo fraterno per favorire l’unità.
 La Chiesa cattolica si è incamminata decisamente sulla strada della ricerca dell’unità e accoglie con fiducia le iniziative e gli sforzi che si compiono in varie parti del mondo cristiano. Questo obiettivo non va ritenuto un accessorio per la Chiesa: ne è costitutivo.
 Non si tratta insomma di un’azione secondaria per la comunità dei discepoli di Cristo, appartiene invece all’essenza stessa della comunità.
 L’unità voluta da Gesù è costituita da vincoli di professione di fede, dai sacramenti e dalla comunione gerarchica. Il Concilio afferma che «la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa Cattolica governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui» (Lumen gentium 8); riconosce però che «al di fuori del suo organismo si trovano parecchi elementi di santificazione e di verità, che, quali doni propri della Chiesa di Cristo, spingono verso l’unità cattolica» (Unitatis redintegratio, 13).

Il Papa si offre al dialogo per ripensare la forma di esercizio del Primato

 Nell’enciclica Ut Unum sint Giovanni Paolo II manifestava la tristezza del suo cuore difronte alle difficoltà presenti nel mondo cristiano proprio a causa del Primato di Pietro.
 Ricordava e riaffermava che «la comunione piena e visibile di tutte le comunità... è il desiderio ardente di Cristo», e aggiungeva: «Sono convinto di avere a questo riguardo una responsabilità particolare, soprattutto nel constatare l’aspirazione ecumenica della maggior parte delle comunità cristiane e ascoltando la domanda che mi è rivolta di trovare una forma di esercizio del Primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova». Il Papa ricordava poi che per un millennio (fino al 1054) i cristiani avevano accolto il servizio all’unità della sede apostolica romana; in seguito, per ragioni diverse, il servizio si è manifestato in una luce abbastanza diversa. Si tratta tuttavia di riconoscere la volontà di Cristo; di ubbidirle per il bene del mondo, anche se costa.
 Il Papa desiderava dunque cercare insieme a pastori e teologi, con la guida indispensabile dello Spirito Santo, le forme nelle quali il primato possa realizzare un servizio di amore riconosciuto dagli uni e dagli altri. Giovanni Paolo II avvertiva che si trattava di un compito immane che egli non poteva rifiutare, ma che non avrebbe potuto portare a termine da solo; per questo riteneva indispensabile un dialogo fraterno e paziente, lontano da sterili polemiche e guidato soltanto dalla volontà di Cristo per la sua Chiesa. Nella lettera di preparazione al Giubileo del 2000 lo stesso Papa ricordava che «tra i peccati che esigono un maggior impegno di penitenza e di conversione devono essere annoverati certamente quelli che hanno pregiudicato l’unità voluta da Dio per il suo popolo».
Raccomandava quindi la preghiera, poiché l’unità è dono dello Spirito Santo. Proseguiva indicando l’urgenza di questo compito nel cammino verso il nuovo millennio che sollecitava tutti ad un esame di coscienza e ad opportune iniziative ecumeniche, così che al grande Giubileo ci si potesse presentare, se non del tutto uniti, almeno più prossimi a superare le divisioni ereditate dalla storia.
 Sarebbe stato necessario, al riguardo, «uno sforzo enorme. Bisogna proseguire nel dialogo dottrinale, ma soprattutto impegnarsi di più nella preghiera ecumenica» (Tertio Millennio adveniente, 34).
«Lo Spirito Santo - continuava il Papa - allontanerà gli spettri del passato e le memorie dolorose della separazione; Egli concederà lucidità, forza e coraggio». Ricordava poi le parole di S. Cipriano nel commento al Padre Nostro: «Dio non accoglie il sacrificio di chi è in discordia, anzi comanda di ritornare indietro dall’altare e di riconciliarsi prima col fratello».
 Il cammino ecumenico auspicato da Giovanni Paolo II si è aperto a orizzonti universali: le iniziative di dialogo con i rappresentanti di tutte le religioni hanno lasciato il segno sia nelle Chiese cristiane sia nelle altre tradizioni religiose.
 L’azione di Giovanni Paolo II è stata continuata dal suo successore, Benedetto XVI, con non minore determinazione, sebbene a parere di qualcuno il dialogo stia esperimentando qualche difficoltà. Il richiamo dell’attuale Papa al tema della verità provoca in alcune circostanze reazioni timorose: vi si vede un ritorno a forme di ‘imperialismo’ cattolico. L’attuale Papa ribadisce invece che non vi può essere unità tra i cristiani e tra le persone umane tutte se non si riconosce la Verità che è stata donata in Gesù Cristo e quella che la ragione umana è in grado di raggiungere. In questo Egli intende continuare il servizio dell’unità. Infatti, senza verità non si dà carità, che è il vincolo dell’unità: «La verità è logos che crea dia-logos e quindi comunicazione e comunione. […] La verità apre e unisce le intelligenze nel logos dell’amore: è, questo, l’annuncio e la testimonianza cristiana della carità», scrive Benedetto XVI nella recente Enciclica Caritas in veritate (n. 4).

Conclusione

 Accogliere nella nostra Chiesa il successore di Pietro è aprirci agli orizzonti dell’unità nel tempo e nello spazio che caratterizzano la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica, segno e strumento della comunione delle persone umane con Dio e tra di loro (cfr. Lumen gentium 1). 

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